ENZO MONTELEONE


“Dopo aver scritto la prima versione della sceneggiatura di El Alamein basandomi su decine di libri e diari, ho sentito il bisogno di farmi raccontare dalla viva voce di chi era stato veramente in prima linea quello che avevano vissuto”.
Così è nato I ragazzi di El Alamein, documentario di Enzo Monteleone, sceneggiatore di 4 film di Gabriele Salvatores tra cui il premio Oscar Mediterraneo, e regista di Ormai è fatta! e La vera vita di Antonio H..
Presentato oggi al Lido nella sezione Nuovi Territori, il film raccoglie le testimonianze di ex soldati ormai 80enni che 60 anni fa hanno preso parte a uno degli episodi chiave della Seconda Guerra Mondiale, la disfatta di El Alamein, in Nordafrica, dove l’armata nazista subì la prima grande sconfitta e le truppe italiane furono costrette alla ritirata dagli inglesi.
Il filmato di 52 minuti anticipa l’uscita del lungometraggio, prodotto da Riccardo Tozzi, Giovanni Stabilini e Marco Chimenz per Cattleya, prevista per l’inizio di novembre. Nel cast Pierfrancesco Favino, Emilio Solfrizzi, Paolo Briguglia, Thomas Trabacchi, Luciano Scarpa e Silvio Orlando.

E’ dai tempi di “Mediterraneo” che lei è interessato a El Alamein. Perchè?
Perchè El Alamein è stata rimossa. Si è parlato molto della disastrosa ritirata russa ma quasi mai di quella africana. Forse per l’imbarazzo legato all’Italia colonialista o alla presenza in Africa della Folgore che ha una connotazione negativa. Ho voluto raccontare la vicenda di ventenni mandati allo sbaraglio in una guerra insensata, in un luogo ostile e lontano, con la tipica impreparazione della macchina fascista, condannati dunque a essere sconfitti. Formavano un esercito ottocentesco che ne ha fronteggiato un altro moderno. Loro hanno fatto il loro dovere e io ho cercato di evitare facili divisioni tra buoni e cattivi.

Nel documentario nessuno dei reduci dichiara la sconfitta.
Si. Accettarla è difficile. Mi interessava mettere a fuoco il loro orgoglio, anche se qualche volta può essere un alibi un po’ pericoloso per la memoria, e la situazione di caos totale in cui erano immersi e che fece perdere loro il senso della realtà. Pensavano di aver vinto mentre era già cominciata la ritirata. Il documentario è un omaggio a una generazione che si è trovata al momento sbagliato nel posto sbagliato e dalla parte sbagliata. Raccontano una storia completamente diversa da quella dei filmati Luce. Nessuno di loro parla di fedeltà al re e a Mussolini ma all’Italia. Li animava uno spirito ancora risorgimentale. D’altronde sono cresciuti sotto il regime fascista, conoscevano solo quello. Così come chi è nato nell’era Berlusconi crede magari che le tv private siano sempre esistite.

Qual è il rapporto del lungometraggio con il film di guerra americano?
Il mio obiettivo è mettere a fuoco il fattore umano della guerra e non quello esclusivamente spettacolare. Trovo pornografici i film di guerra americani tutti effetti speciali e nessuna emozione. Ma non ho rinunciato del tutto alla dimensione epica che nel cinema italiano manca dai tempi di Lamerica di Gianni Amelio. Ci sono elementi del western alla John Ford con piccoli uomini in grandi paesaggi. Ho mostrato El Alamein a un ex soldato: l’ha guardato in silenzio e poi ha detto: “Finalmente un film che dà una visione realista della guerra”.

autore
30 Agosto 2002

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