A Cagliari è stato l’unico successo italiano dell’anno, oltre a L’ora di religione. Al Cinema Odissea, per due mesi consecutivi, Pesi leggeri di Enrico Pau si è guadagnato il 12° posto nella classifica degli incassi cittadini.
Piccolo caso se si pensa che è ambientato proprio nella città sarda, grande se invece si considera che Pesi leggeri, un art. 8 prodotto dalla milanese Blu Cinematografica con un budget piuttosto limitato, sta seguendo lo stesso percorso di un altro piccolo ma ottimo esordio come il barese La capagira di Alessandro Piva: un passaggio lento e difficile dal circuito provinciale alle sale nazionali. Intanto sabato prossimo il film di Pau si sposta a Roma, al Filmstudio, grazie a Lantia.
Pesi leggeri, che narra con taglio documentaristico il mondo del pugilato dilettantistico in Sardegna, le sue regole e il peso che questa disciplina ha avuto nella vita di molti individui ai margini, è il frutto di valide collaborazioni artistiche e tecniche. Direttore della fotografia è Gian Enrico Bianchi, lo stesso che collabora da tempo con Piva (anche nel prossimo Giovanni Venosta, collaboratore abituale di Silvio Soldini fin da Le acrobate. Tra gli interpreti ritroviamo Claudio Morganti (Palombella rossa).
Da dove parte l’idea di “Pesi leggeri”?
Qualche anno fa ho realizzato un documentario, Storie di pugili, con interviste a molti boxeur sardi. Tra questi Piero Rollo, Fortunato Manca, Paolo Melis, Lello Scano e il campione del mondo Salvatore Burruni. Quel piccolo documentario ha fatto poi il giro di diversi canali satellitari. Cagliari per molti anni non ha prodotto scrittori ma grandi sportivi, in particolare grandi campioni di boxe. Questo sport per molto tempo ha rappresentato la possibilità di conoscere il mondo, vivere dignitosamente e conoscere se stessi. Sono partito da questi spunti reali per poi sviluppare una sceneggiatura insieme ad Aldo Tanchis. La storia si sviluppa intorno a una palestra di periferia dove si allenano due ragazzi: Nino, un giovane di talento, e Giuseppe, un ragazzo dotato ma con un carattere schivo e violento.
Cosa significa per Nino e Giuseppe fare boxe?
Per entrambi la boxe è una palestra di vita, dove sviluppare forza di volontà, pazienza, umiltà e capacità di perdere riuscendo a riprendere il proprio cammino. Le palestre di pugilato sono posti pieni di umanità e gli allenatori, dopo la scuola, sono grandi educatori. Non hanno alcun pregiudizio nei confronti dei loro allievi: orecchini, tatuaggi o cose del genere non sono un problema. Sanno comunicare con i giovani e insegnano loro una disciplina di vita.
C’è anche un personaggio femminile nel film.
Sara, anche lei con una vita non facile. La ragazza lascia Nino, il suo fidanzato, perché vuole stabilità, cose concrete: una casa, una macchina e un marito che si occupi di lei e non dei guantoni. Molte persone nella nostra società, non avendo ricevuto sicurezza economica e affettiva dalle loro famiglie, le cercano con forza dopo.
La realtà urbana di Cagliari è importante. Che luci avete scelto insieme a Bianchi?
La città si sviluppa in modo orizzontale, quindi ho cercato degli sfondi lunghi scegliendo ottiche corte e grandangoli. Io e Bianchi collaboriamo fin dal mio primo cortometraggio, La volpe e l’ape, che presentai nel ’96 al Festival di Clermont-Ferrand.
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