VENEZIA – L’Italia di Emma Dante è un vicolo stretto dove si fronteggiano realtà sociali e politiche opposte, incapaci anche solo di parlare la stessa lingua. Quell’Italia è sull’orlo di un precipizio dove non si riesce neanche a cadere. “Cadere sarebbe un modo per rialzarsi, invece siamo completamente in stallo”, dice l’autrice, prima italiana ad affrontare il concorso di Venezia 70 con Via Castellana Bandiera. Il film, molto applaudito, segna il passaggio al cinema di una regista teatrale, che ha raccontato la sua Palermo metafora di umanità e disumanità insieme alla Compagnia Sud Costa Occidentale, e adesso ha deciso di fare un film dal suo romanzo. Un romanzo dove in una città fiaccata dallo scirocco, due macchine si fronteggiano in un budello troppo angusto per poter passare. Una, con un’intera famiglia stipata sui sedili posteriori, è guidata da Samira, una vecchia di Piana Degli Albanesi che piange inconsolabile la morte della figlia sposata al violento capofamiglia Saro Calafiore. Nell’altra è al volante Rosa, una donna di estrazione borghese ma che si è lasciata alle spalle il passato per vivere al Nord insieme alla compagna Clara, disegnatrice di fumetti, con cui vive un rapporto in bilico. Nessuna vuole mettere la retromarcia, testarde e ferite dalla vita si rifiutano persino di bere e di mangiare, mentre il vicolo comincia a scommettere piccole fortune su chi resisterà più a lungo. Protagoniste sono la stessa Emma Dante nel ruolo di Rosa, Alba Rohrwacher (che definisce la regista “rivoluzionaria”) in versione punk in quello di Clara, Elena Cotta, 82enne attrice teatrale al suo primo red carpet che recita solo con gli sguardi in un ruolo praticamente muto. Prodotto da Vivo Film con Wildside, ventura film, Slot Machine, Rai Cinema e la RSI, Via Castellana Bandiera sarà distribuito da Istituto Luce Cinecittà e uscirà il 12 settembre a Palermo e il 19 nel resto d’Italia.
Questa storia non potrebbe svolgersi altrove, in Medio Oriente per esempio?
Palermo è la mia città e io parto da qui, dalla mia lingua, dalla mia storia. Il Sud è la mia torretta di osservazione sul mondo. Ma la storia riguarda l’aggregazione degli esseri umani ovunque sia.
A Via Castellana Bandiera lei ha vissuto davvero per anni.
È vero, ed è un luogo fisico e anche mentale del film. Abbiamo girato lì, nella strada reale, ma sono stati aggiunti degli elementi dalla scenografa Emita Frigato, in modo che la via potesse gradualmente, ma impercettibilmente, allargarsi, spostando un muro. Così, nonostante lo spazio si apra, dichiarando la possibilità di sciogliere l’ingorgo, il comportamento dei personaggi non cambia, perché l’ostacolo è nelle loro teste. Tendiamo tutti a vedere le cose deformate.
Eppure in qualche modo le due donne, restando ferme una di fronte all’altra mentre tutti si muovono, cominciano a cambiare.
Sono ottuse, tenaci, ma cominciano a fare il punto della loro vita messe a confronto con l’altro, l’alieno. I veri nemici in qualche modo si apprezzano, l’odio li eleva. Di fronte a un altro quello che cerchiamo di rimuovere torna a galla, riconosciamo il mostro che è in noi. La loro mostruosità mi piace perché è la loro verità.
Perché ha scelto una coppia gay da mettere di fronte al mondo arcaico, chiuso, della famiglia Calafiore?
Che sia una coppia di donne per me è un fatto naturale, che non fa differenza. Vorrei che diventasse una storia naturale, quella di due persone che si amano indipendentemente dal fatto che sono due donne o due uomini. Ci sarebbe spazio per tutti, anche per gli omosessuali che vogliono avere i diritti che hanno gli altri. In questo momento della nostra società dovremmo parlare d’altro, delle miserie dell’umanità, invece continuiamo a fare i bigotti. Così come la battaglia delle donne non è finita, perché il mondo continua a essere maschile, gli omosessuali continuano a essere emarginati e la mafia continua a essere un problema per noi italiani.
Nell’incomunicabilità tra questi due mondi contrapposti si può vedere anche una metafora dell’incapacità della sinistra di dialogare con l’emarginazione e la povertà, restando arroccata al proprio intellettualismo?
C’è un problema di lingua e di pensiero, la paura di prendere posizione fino in fondo che blocca. Questo rispecchia scelte che avrebbero potuto cambiare il nostro paese e non sono state fatte.
Perché ha deciso di passare al cinema?
È stato un passaggio naturale perché per questa storia avevo bisogno della polvere, della strada, della carne che il teatro non potevano darmi. Ho usato lo stesso metodo che uso a teatro. Ho provato un mese e mezzo con gli attori, con la mia compagnia e con gli attori presi dalla strada, come Renato Malfatti che è Saro Calafiore.
Le dispiace se si parla del film come di un western al femminile?
Il western l’ho sempre amato, chi non desidererebbe girare un western? Ho anche rivisto i film di Sergio Leone, un grande. Nel genere western è naturale la sfida che ti pone di fronte all’altro. Non mi interessa invece parlare di regia al femminile, penso che a un uomo non chiederebbero se ha fatto un film al maschile.
Il ragazzino è l’unico della famiglia Calafiore che vuole bene a Samira e riesce a comunicare anche con Clara, senza giudicarla. Rappresenta una speranza?
È una fiammella, ma c’è molto lavoro da fare per alimentare quel fuoco. È nell’infanzia che diventi un assassino o una persona perbene, nella famiglia tutto germina.
La canzone finale, “Cumu è sula la strata” è cantata dai Fratelli Mancuso.
Sono due musicisti che collaborano con me da sempre, sono l’anima di quella Sicilia.
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