TORINO – “Underground è Shakespeare visto dai Fratelli Marx“. Ma anche “il film che mi ha salvato la vita”. Emir Kusturica chiude il 27° Festival di Torino con la proiezione della versione integrale del suo film del ’95, Palma d’oro a Cannes. 312′ per la storia di una Jugoslavia parallela nei sotterranei di Belgrado, indiavolata metafora della dittatura titina. Tra pochi giorni, il 24 novembre, compie 55 anni, il regista di Sarajevo. Musicista, scrittore, attore (anche in un film, L’affaire Farewell, che sarà presentato al Noir di Courmayeur), produttore. Gianni Amelio ha deciso di dargli il Gran Premio Torino, un premio alla carriera che lui accetta con piacere esibito e una certa emozione. “Nel paese di Fellini, Visconti, Bertolucci e Scola il cinema è di casa e Amelio è mio amico, abbiamo un’idea di cosa significa il cinema più o meno simile”. I due registi si sono conosciuti, venticinque anni fa, in un paesino in provincia di Salerno, mangiavano da soli nello stesso ristorante. E poi entrambi dirigono un festival: Amelio quello di Torino, Kustu il Kustendorf Film Festival, che si svolge in un villaggio sulle montagne della Serbia a gennaio. Ha sempre l’aria bohémien con i capelli arruffati e la barba, ma è anche uno dei registi più premiati del mondo con due Palme d’oro (Underground appunto e Papà è in viaggio d’affari) e un Leone d’oro per l’opera prima con Ti ricordi di Dolly Bell?
Cosa ricorda di questi premi?
Ricordo che quando vinsi per Dolly Bell, nel 1981, ero a Belgrado a fare il servizio militare. Quando arrivai a Venezia chiesi a un collega se secondo lui quel premio, il Leone d’oro, era un bel premio, un premio che mi poteva bastare per tutta la vita, e lui disse: “Sì, non ti serve altro, vai pure a casa”. Così pensai che sarebbe stato l’ultimo… ma mi sbagliavo.
Stasera il pubblico di Torino potrà vedere la versione integrale di “Underground”, più di cinque ore.
E’ il director’s cut di un film, Underground, che è stato realizzato nel periodo più difficile della mia vita. Avevo perso il mio paese, la mia casa, la mia città natale, ero in piena crisi d’identità. In quel film cercavo a rimettere insieme tutti questi elementi e dunque giravo tantissimo. Così feci una prima versione di 4 ore e mezza, da cui poi fu tratta una serie tv per Arte. Nessuno, a Belgrado, credeva che sarei riuscito a farne un film per il cinema. Un film parlato in serbo non ha mercato. Se fai Kill Bill in inglese e dura sei ore, puoi dividerlo in due. Se fai Novecento – e io considero Bertolucci una delle figure più forti del cinema europeo – lo stesso. Ma se vieni dalla piccola Serbia e vuoi raccontare una storia per quattro ore, nessuno va a vederla. Così ho montato la versione di 2 ore e 45 che è andata a Cannes. Ed è stato il film che mi ha salvato la vita, nonostante tutte le accuse politiche. Oggi, quando lo vedo, penso che ero vivo e pieno di energie a quell’epoca, ero al massimo delle mie potenzialità. È un film fatto pensando a Joe Strummer e ai Clash.
Adesso sta lavorando di nuovo a una grande storia, quella del bandito messicano Pancho Villa, dopo la parentesi documentaristica con il film su “Maradona”.
Ho finito la sceneggiatura di Seven Friends of Pancho Villa and the Woman with Six Fingers, che girerò nel 2011 perché il protagonista, Johnny Depp, è impegnato fino a quella data. Gireremo in spagnolo, una lingua che Depp parla molto bene.
Perché ha scelto questa storia e questo personaggio?
Mi piacciono i rivoluzionari e i banditi, ho un interesse estetico per loro. La biografia di Pancho Villa è una delle più interessanti in assoluto: da bandito a governatore, da governatore a ricercato e ha concluso la vita nel modo più spettacolare. Per documentarmi ho usato i suoi tre diari, dove parla anche di questo amore inconsueto per la donna con sei dita.
Sarà una grande produzione hollywoodiana?
No, assolutamente no. Io non amo Hollywood e Hollywood non mi ama. È stata grande ai tempi dell’american dream, dell’idealismo di Lubitsch e Frank Capra, ma oggi è una schifezza. Dalla fine degli anni ’70 non merita più nulla.
Cosa farà in attesa di girare Pancho Villa?
Ho un progetto in Israele, si chiama Cool Water. È la storia di uno spogliarellista palestinese che lavora in Germania e che torna in Palestina per la morte del padre e il matrimonio del fratello. Deve portare la salma del padre da Gaza e Ramallah, ma quel breve viaggio, che può durare un quarto d’ora, diventa il viaggio di una vita. Sarà un film poetico.
Lei ha spesso parlato dell’enorme influenza del cinema italiano sulla sua opera.
È stata cruciale, in Dolly Bell si vede l’inizio di questo rapporto, in quel caso con il neorealismo. Poi c’è Fellini. Nel ’74 ero a Praga, alla scuola di cinema, e lì facevano sempre delle proiezioni di film il venerdì, ma io il venerdì tornavo a Sarajevo. Allora c’era una signora che li riproiettava per me, il lunedì, ma io regolarmente mi addormentavo perché ero stanchissimo. Beh, mi vergogno di me stesso ma, credetemi, mi sono addormentato sette volte. Alla fine però l’ho visto e l’ho rivisto venti volte e ogni anno lo vedo almeno due volte. Anche nei miei sogni sono entrato in contatto con Fellini.
Fellini d’accordo, ma cosa pensa dei contemporanei?
Gomorra è un’opera d’arte, mi ha colpito moltissimo. Ha la profondità e la forza del neorealismo, usa il linguaggio del passato. Quello è grande cinema europeo. Infatti li avevo invitati al mio festival ma hanno preferito non venire perché coincideva con le nomination. Ma quello è un film più grande dell’Oscar, più profondo…
È l’Italia il paese che l’ha più influenzata?
Per i Balcani l’Italia è fondamentale. Con la Francia. Ma io sono un caso unico: adoro Bruce Lee e contemporaneamente adoro Bergman.
Come vede il futuro del cinema?
Penso che il cinema morirà, che farà la stessa fine dell’opera. Ogni città avrà due o tre schermi, come i teatri lirici. Ma poi i film si vedranno sul telefonino e in internet.
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