“Il mio cinema non somiglia a nient’altro”. Così Emidio Greco, in concorso alla Festa di Roma con L’uomo privato parla del suo film. Consapevole che può lasciare freddi, che può scavare addirittura una distanza incolmabile con lo spettatore. Ma convinto di aver affidato alle immagini una ricerca personale, originale e urgente. Arriva a definire “un’autobiografia fantasticata”, questa radiografia di un professore di diritto (Tommaso Ragno), uomo affermato e corteggiato nel sociale, quanto scostante e incapace di coinvolgimenti, con le donne o in politica. Un intellettuale circondato di lusinghe che preferisce restare confinato nella sua torre d’avorio fino a interrompere bruscamente la relazione con una ragazza (Myriam Catania) innamorata di lui, senza apparente motivo e senza spiegazioni. Prodotto da Enzo Porcelli in collaborazione con Rai Cinema, Ripley’s Film e Torino Piemonte Film Commission, L’uomo privato uscirà il 2 novembre con l’Istituto Luce. Nel cast anche Catherine Spaak nel ruolo di una ex amante e consigliera.
In concorso alla Festa di Roma: è stata una scelta?
Come altri film italiani anche il mio era già pronto per altri festival, anche se il primo ad averlo visto e molto apprezzato è stato Giorgio Gosetti. Mi ha detto cose meravigliose.
A Roma il cinema italiano, mortificato a Venezia, sembra essersi ripreso.
Purtroppo non ho visto nulla, ma ho letto quello che è stato scritto di Mazzacurati e Soldini, due ottimi film. Mi fa piacere perché è giusto smentire il luogo comune del cinema italiano che arranca. È un giudizio facile usato in modo strumentale. È vero, il cinema italiano ha problemi gravissimi ed è povero, perché un film italiano costa due volte e mezzo in meno di un film francese. Ecco perché occorre una legge di sistema e un intervento pubblico più forte e attento. Nonostante questo non siamo la Cenerentola: in Europa nessun’altra cinematografia è in grado di allineare 7/8 giovani registi di valore intorno ai quarant’anni e nessun’altra ha in attività autori di tutte le generazioni come noi. È intollerabile parlare male del nostro cinema per sei mesi, poi parlarne bene, poi di nuovo male. Sono giudizi politici, precostituiti e spesso personalizzati.
Cosa pensa delle posizioni di Sky contro la tassa di scopo?
Penso che siano posizioni incomprensibili e indifendibili. Con 4 mln di abbonati e 2 mld di fatturato, in gran parte merito proprio del prodotto cinematografico, non possono tirarsi indietro. Chiunque sfrutta il prodotto cinema arricchendosi deve investire.
Veniamo al film. Definirebbe il protagonista un anaffettivo?
È un personaggio che ha un rifiuto nei confronti della realtà, perché la realtà non gli è congeniale. Usa le sue condizioni di privilegio come uno schermo, ma da punto di vista etico è inevitabile che questo progetto venga frustrato. Un confine tra l’uomo e la realtà non è tracciabile. Diciamo che crede di essere in una stanza ermeticamente chiusa e invece in quella stanza entra uno spiffero che lo travolge.
Il suo isolamento viene messo in crisi dall’irruzione di un elemento esterno, un ragazzo che lo segue e lo riprende con una videocamera, che trasforma il film in un giallo.
È l’incrinatura che il personaggio subisce. Il titolo vuol dire proprio questo: “privato” nel senso di personale e intimo, ma anche “privato” come segno di qualcosa che viene sottratto. E qui erompe il giallo.
L’ambiguità del titolo riflette l’ambiguità della costruzione.
Non esiste che l’ambiguità e con essa bisogna convivere, combattendola ciascuno a suo modo. Non esistono la giustizia e la verità con la maiuscola.
A quale pubblico pensa di rivolgersi?
Un pubblico che non abbia voglia di cazzotti nello stomaco ma di emozioni fredde. Che si lasci coinvolgere da domande e interrogativi.
Il protagonista sembra quasi un suo alter ego.
È sicuramente il film in cui è maggiormente riversata una sorta di autobiografia fantasticata. Qui c’è un coinvolgimento esistenziale molto più forte che in altri miei film.
Nella lunga sequenza finale del convegno, la vediamo tra i relatori in un’autocitazione piuttosto ironica.
Le parole che dico, sul tema dell’amico-nemico, non sono mie ma del filosofo tedesco Karl Schmitt. La scena del convegno è una sorta di rigonfiamento narrativo rispetto al filo sottile della narrazione e fa da pendant alla scena del rave party degli studenti. Sono due momenti in cui vediamo il personaggio a confronto con la realtà, i giovani e il mondo accademico, con le sue ambizioni, e vediamo la sua estraneità.
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