VENEZIA – Per Emanuele Crialese l’Italia è una barca che ha perso la rotta. Primo italiano in concorso a Venezia 68, accolto con molti applausi, Terraferma parla d’immigrazione, come Cose dell’altro mondo, quindi delle vite degli altri, ma anche delle nostre, di quello che siamo diventati. Più di un secolo è passato dai tempi che aveva raccontato con Nuovomondo e non sembra esserci memoria di quel grande viaggio, epico e doloroso, necessario a sopravvivere, che segnò il destino di tanti italiani all’inizio del Novecento. Ma il regista romano, però quasi siciliano d’adozione, lancia dal Lido una riflessione e un allarme: “Voglio rimettere in discussione la parola ‘immigrazione’ che ha ormai assunto un significato troppo generico. Quella degli italiani è ben diversa dall’olocausto – io lo chiamo così – a cui stiamo assistendo in questi anni, con gli sbarchi e i respingimenti. Siamo noi che rendiamo clandestini questi uomini e queste donne, che vengono rinchiusi anche se non hanno commesso alcun crimine”.
Scritto con Vittorio Moroni, prodotto da Cattleya e Rai Cinema, Terraferma arriverà subito in sala, il 7 settembre, con la 01 in 200 copie. Avrà anteprime a Linosa e Lampedusa, l’isola dove è stato girato e quella è protagonista di questa tragedia collettiva. E sulle due isole, grazie all’impegno della produzione, della Regione Sicilia e della Film Commission, sorgeranno anche due sale digitali chiamate proprio “Terraferma”.
Il film intreccia la vicenda di una giovane vedova (Donatella Finocchiaro) che vuole vendere la barca e ricominciare sul continente con il figlio ventenne (Filippo Pucillo, insieme a Crialese dai tempi di Respiro), e di Sara, una straniera che ha attraversato l’Africa a piedi e poi il mare su una zattera, che ha conosciuto il carcere e lo stupro, è sopravvissuta all’inferno e partorirà il figlio di quella violenza nel garage della povera famiglia che non riesce più a vivere di pesca, quasi fossero i Malavoglia dei giorni nostri. Si arrabattano, affittano l’appartamento con le foto e i soprammobili ai villeggianti stupidi, piantano gli ombrelloni nella sabbia.
C’è un lavoro di identificazione nel territorio che ha portato gli attori a vivere sull’isola di Linosa per mesi: Donatella Finocchiaro ha fatto le pizze nel ristorantino locale, Mimmo Cuticchio, il grande puparo palermitano che ha il ruolo del vecchio nonno indomito, è uscito a pesca, ha imparato i nomi di tutti i pesci nel dialetto locale e a tirare su le reti… Ma anche Beppe Fiorello ha sudato e sgobbato per entrare nel ruolo di Nino, lo zio furbo che si butta nel business del turismo, che non vuole vedere i corpi sfiniti dei migranti sulla spiaggia dove si ascolta Maracaibo a tutto volume, tra un tuffo e una granita. Per carità, non perdete il ritmo. “Il mio è un personaggio che somiglia a molti italiani, da Trieste a Siracusa: è l’Italia che mette la testa sotto la sabbia. Questo film, che mia madre capirà benissimo, lo spiega molto bene”, dice l’attore che si sente liberato dall’etichetta di personaggio televisivo.
Interviene Laura Boldrini, portavoce dell’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, che ha dato il suo patrocinio al film. “L’immigrazione è una grande sfida per tutti, ma il fenomeno è stato collegato con il tema della sicurezza e le leggi hanno di fatto criminalizzato la presenza degli immigrati. Invece è una grande opportunità: ha cambiato il costume degli italiani, il modo in cui mangiamo, la musica che ascoltiamo, ci ha sollevato dalla cura degli anziani e dalle carenze degli asili nido. Il film fa vedere come ci si può incontrare e come da questo incontro può risultare un nuovo mondo”.
Crialese, “Terraferma” chiude in qualche modo una sorta di ideale trilogia isolana, iniziata con “Respiro” e proseguita con “Nuovomondo”. Non è un film sui respingimenti.
Sì, vorrei che Terraferma fosse considerato un film sulla libertà di poter andare altrove. La ricerca dell’altrove è conoscenza e progresso. E mi chiedo perché a una parte del mondo viene permesso di evolversi e conoscere e a un’altra parte no
Nel film la guardia di finanza sequestra la barca dei pescatori colpevoli di aver salvato un pugno di disperati che stavano annegando.
E’ tutto vero, molti pescherecchi sono stati sequestrati con l’accusa di favoreggiamento. La risposta dello Stato è completamente inadeguata e va contro le regole più elementari di civiltà. Lasciare la gente in mezzo al mare è un segno di grandissima barbarie. Purtroppo siamo bombardati di notizie dalla televisione e così non ci rendiamo più conto della tragedia in atto. Abbiamo perso la rotta morale. In questo c’è una responsabilità dello Stato, e lo dico a chiare lettere, ma c’è anche una responsabilità di un certo tipo di informazione.
Com’è avvenuto l’incontro con Timnit, la donna africana che interpreta il personaggio di Sara?
Timnit è una profuga, viene da un paese in cui non è possibile rientrare, ma non vorrei dire quale. Nell’agosto del 2009, stavo tornando da Lampedusa a Roma, quando lessi un articolo su uno sbarco in cui si raccontava di una barca che era rimasta alla deriva per tre settimane. Morirono in 73, i sopravvissuti erano tre uomini e una sola donna. Lei. Il suo volto sul giornale mi ha ipnotizzato. Quella donna aveva appena attraversato l’inferno, le navi che si avvicinavano ai naufraghi, davano un po’ di acqua potabile e ripartivano… eppure Timnit aveva gli occhi di una persona che era arrivata in paradiso. Per questo l’ho voluta incontrare, anche se ci sono voluti dei mesi. Con Moroni scrivevamo senza sapere se avremmo usato un’attrice per il ruolo di Sara. Finalmente, grazie all’aiuto di Laura Boldrini l’ho incontrata. Lei non voleva raccontare la sua storia, allora le ho proposto di inventare insieme a me una vicenda possibile ma in piena libertà. Il momento più intenso è stato quello della scena dell’abbraccio con Donatella. Timnit è una donna che non fa trapelare le sue emozioni, ha una grande dignità. Ma in quel momento, vedendo le lacrime di Donatella, si è messa a piangere e ho deciso di riprendere quel momento unico.
Come vi siete districati tra le notizie che ogni giorno arrivano sui cosiddetti sbarchi?
Abbiamo cercato di evitare la cronaca, questo era ben chiaro fin dall’inizio. Bisognava uscire dal linguaggio televisivo né volevo fare un film a tesi, anche se so che Terraferma susciterà un dibattito. Il mio pubblico ideale è un bambino di 7 anni. E poi io non voglio giudicare nessuno, mi faccio semplicemente delle domande.
L’isola del film è un luogo senza nome. Perché?
Non volevo che fosse Lampedusa, ma un’isola immaginaria, perché questa storia può accadere in qualsiasi punto del mondo.
Perché l’Italia è così chiusa agli stranieri?
Non so cosa pensano gli italiani, a volte non so neppure chi siano esattamente gli italiani. Ma me lo chiedo spesso. Avremmo molto bisogno della contaminazione, in senso positivo, perché siamo un paese vecchio e queste persone – che non sono tutti ladri o assassini o parassiti – possono aiutarci ad uscire da un’impasse.
Oltre al confronto tra le due donne, il film si sofferma molto sul personaggio del figlio, il giovane Filippo Pucillo.
Sì, c’è la sua crescita che lo porta alla fine a un gesto estremo che lascio interpretare allo spettatore. E’ un ragazzo un po’ bloccato, anche nei confronti dei suoi coetanei, un ragazzo all’antica, perché vive nel mondo di suo nonno, ha perso il padre da due anni. E’ confuso e arriva a compiere un gesto tragico che poi cercherà di riscattare.
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