La catena di montaggio alla Renault, i lavori dei campi nel Sud della Francia, la guerra di Spagna e la resistenza, anche se, goffa com’era, non sapeva neppure tenere in mano un fucile. Donna d’azione, oltre che donna di pensiero, Simone Weil torna prepotentemente nei momenti di crisi. La filosofa Luisa Muraro l’ha citata per spiegare la scelta di non scendere in piazza il 13 febbraio. Al convegno su di lei organizzato la scorsa settimana al Centro San Luigi dei Francesi c’è stato il tutto esaurito. Per molte donne, attraversate dal femminismo e dall’impegno politico, è una madre. I cattolici la rivendicano, anche se, nata in una famiglia ebrea e diventata cristiana per riflessione, oltre che per indole, non venne mai battezzata. Oggi la filosofa francese nata nel 1909, morta a 34 anni nel ’43, in pratica di consunzione (secondo alcuni era anoressica, per altri votata a un’ascesi che rasentava il masochismo) è protagonista del film di Emanuela Piovano Le stelle inquiete. Un film prezioso per avvicinare la Simone in carne ed ossa attraverso un solo episodio della sua straordinaria esistenza, il soggiorno nella casa di campagna di Gustave Thibon, il filosofo contadino a cui poi affiderà i suoi quaderni, pubblicati nel volume “L’ombra e la grazia”. Un’amicizia pura che rende l’estate del ’41 un magico intermezzo nella sua tormentata vita (la biografa Gabriella Fiori lo chiama “la tregua”). Gustave e sua moglie Yvette, dopo un primo momento di diffidenza, sono conquistati da questa donna che preferisce dormire quasi all’addiaccio, in un capanno degli attrezzi, che scrive freneticamente e contempla kantianamente la notte stellata. Prodotto dalla Kitchen Film, uscirà l’11 marzo con Bolero. Nel ruolo di Simone, con straordinaria identificazione, l’attrice francese Lara Guirao, diretta da Tavernier in Legge 627, Laissez Passer e La piccola Lola, mentre Fabrizio Rizzolo è Gustave e Isabella Tabarini Yvette.
Elsa Morante diceva di Simone “sorelluccia inviolata, bellezza camuffata in quei tuoi buffi occhiali da scolara miope”… Eppure Simone, in quell’estate, è al centro dei pensieri di Gustave e anche di Yvette, che ne sembra gelosa…
La chiamavano la “vergine rossa” e si è tramandata una sua immagine, voluta anche dalla madre, di donna inarrivabile. Invece mi piace raccontare una storia d’amore in contropiede, un momento in cui scopre il corpo avendolo sempre negato. Dalle lettere tra i due, in parte ancora inedite, si comprende un’intimità, se non scopertamente amorosa, almeno vicina all’amore. L’amica e biografa Simone Pétrement, avendola incontrata in quel periodo, disse che aveva una nuova luminosità, come se fosse innamorata.
Un altro film italiano recente, “Je suis Simone” di Fabrizio Ferrario, si concentra sull’esperienza in fabbrica a partire dal volume “La condizione operaia”. Perché lei ha scelto invece questo episodio, poco conosciuto?
Mi intrigava il punto di vista della coppia, Yvette-Gustave, all’arrivo di questa donna che sembra una marziana. Al primo impatto è bruttina, antipatica e saccente, ma poi Gustave è affascinato dal suo sguardo sul Rodano, capisce che Simone è il brutto anatroccolo, che la sua era una bellezza non allineata, perché non voleva che la si apprezzasse per il corpo, ma per altro.
Cosa pensa della sua vocazione all’ascetismo, il rifiuto del cibo e degli agi, la necessità di vivere con il salario operaio, arrivando a lasciare sul tavolo i soldi per la cena quando andava a casa dei genitori?
Non penso che fosse masochista. Negli anni della guerra e dell’occupazione aveva due preoccupazioni costanti: voleva essere paracadutata in prima linea e unirsi alla resistenza. Inoltre in un momento in cui c’era il razionamento e tutti si danno alla borsa nera, lei voleva rispettare le regole. Certo, predicava la lontananza dall’io, la sottrazione, ma non mi piace che questo venga ridotto a una patologia. Simone era una donna piena di vita e di energia, con una voglia matta di amare il prossimo e di condividere le sue cose con chi non aveva nulla.
C’è una Simone mistica che nel film viene sfiorata attraverso il suo rapporto con la natura e la sua idea dell’amore come nodo che non lega.
Simone aveva l’idea di un comunismo originario legato al cristianesimo nella sua versione greca, mentre negava il Dio “crudele” del Vecchio Testamento. E per questo non fu battezzata, anche se desiderava il battesimo. Nel misticismo mi interessava la dimensione panica, l’abbandonare se stessi, il sommo avere come sommo dare. Il nodo che non lega, appunto. Va benissimo il misticismo ma dobbiamo sentire Dio in ciascuno di noi, un Dio incarnato che si batte per i problemi politici. Le stelle sono inquiete, dunque agiscono.
Quando l’ha incontrata per la prima volta?
È sempre stata un riferimento per mia generazione. Per il femminismo era una madre. Poi un amico sindacalista di Ivrea, ai tempi di Amorfù, mi parlò di nuovo di lei come legata al movimento di Adriano Olivetti, ispirato a “La prima radice”. Nei suoi scritti ci sono anche elementi di federalismo molto attuali in Italia e soprattutto dalle mie parti, con gli operai che votavano Pci e oggi votano per la Lega.
Pensa che abbia qualcosa da dirci anche in una chiave di politica globale?
Certo, oggi non sappiamo se stiamo seduti su una polveriera, in Africa come in Italia. C’è chi minimizza e chi invece si preoccupa molto. Anche allora, nel ’41, con la Francia divisa in due, nessuno percepiva bene la gravità della situazione. Per esempio ancora non si sapeva dei campi di concentramento. Oggi vedo segnali positivi: in Libia è in atto una rivoluzione pacifica che nasce da Facebook. La democrazia è più adattiva del suo contrario.
Cosa c’è rimasto di weiliano nel mondo della globalizzazione, dei centri commerciali e dell’alienazione del corpo femminile?
Chiediamocelo. Per quanto mi riguarda credo che al centro ci sia ancora il discorso della relazione. Simone è morta a 34 anni lasciando un’opera incompiuta e soggetta a strumentalizzazioni, un’opera che io ho cercato di avvicinare come farebbe un’entomologa con un coleottero. Luisa Muraro l’ha citata recentemente per dire che “le masse, fatte di persone che non pensano in prima persona, sono cieche o manipolate”. È vero che la bestia nasce quando l’uomo non è preso nella sua interezza, ma alienato. Adriano Olivetti ha cercato di applicare questo pensiero nella sua fabbrica. Oggi Simone Weil rappresenta quel sindacato che discute e che avrebbe escluso soluzioni plebiscitarie, per esempio nella vicenda della Fiat di Pomigliano.
È stato difficile costruire produttivamente il film.
Era la prima volta che si tentava di fare un film su Simone, se si esclude una sceneggiatura mai realizzata di Liliana Cavani ed Europa 51 di Rossellini, ispirato alla sua figura ma violentemente stroncato da Moravia. Io mi sono battuta per anni per farlo. Avevo trovato tre coproduttori stranieri al Network di Cannes, poi c’è stata la crisi del MiBAC e sono stata la prima dei non finanziati. Finalmente Steve Della Casa mi ha offerto il sostegno della Torino Piemonte Film Commission e mi ha dato l’idea di girarlo tutto dalle mie parti, anziché nell’Ardèche. Il film è costato meno di 1 milione di euro ed è uno dei primi progetti che ha beneficiato del tax credit.
A proposito dell’ambientazione, c’è una singolare scelta di linguaggio, con Lara Guirao che recita in francese o in italiano con un forte accento e gli altri che parlano italiano a volte con inflessioni piemontesi.
La lingua, secondo me, rispetta la chiave di quello che si voleva dire: lei è una marziana che piomba in questa realtà. Lara è bravissima e ha la magrezza nervosa di Simone con i suoi grandissimi occhi. È marsigliese, ma ha sangue armeno. Mi è sembrata perfetta.
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