“C’è una nuova classe sociale in Africa, quella degli orfani dei malati d’Aids. Sono 13 milioni, il 90% dei quali vive nell’Africa subsahariana e di questi 400/500mila orfani vivono nel solo Malawi”. Elisa Mereghetti, italiana, antropologa da anni impegnata nella realizzazione di documentari sul Sud del mondo, racconta Eyes wide open – Ad occhi aperti, pellicola codiretta con Marco Mensa su Catherine Piri, fondatrice di SOSA, associazione malawita impegnata nell’assistenza degli orfani e nella campagna d’informazione sulla contrazione del virus da Hiv.
Eyes wide open, prodotto dalla regista con la sua società di produzione La Ethnos in collaborazione con il UNDP (United Nations Development Programme), viene proiettato oggi a Bologna in occasione della giornata mondiale della lotta all’Aids. E il documentario, passato al Premio Libero Bizzarri, sarà adottato dalle Nazioni Unite per la campagna Millenium Goals di Africa 2015: “Ad occhi aperti – fa sapere Elisa Mereghetti – sarà trasmesso in tutte le televisioni del continente africano”.
Gli orfani, un fenomeno sociale dopo quello della contrazione da HIV?
Siamo di fronte all’emergere di una classe sociale portatrice di problemi quali la baby prostituzione, la trasmissione di virus da Hiv, la necessità di educazione, l’accesso al cibo, la necessità di un supporto psicologico specifico. In Africa, morta un’intera generazione di adulti 40enni – compresi i 600 insegnanti che, secondo una stima diffusa dalla Panafrican News Agency, muoiono ogni anno in Malawi – si sono dovute creare nuove strategie di sopravvivenza per questi bambini. Le donne anziane hanno iniziato a prendersi cura dei gruppi di orfani.
Chi è Catherine Phiri, protagonista del suo documentario?
Una donna coraggiosa e dinamica. Nel 1990 è morto il marito per Aids e Catherine, allora infermiera ha scoperto di essere sieropositiva. I parenti del marito l’hanno emarginata togliendole la casa. Lei, una donna sola con due figli a carico, si è trasferita a Salima dalla capitale e ha iniziato una nuova vita. La contrazione del virus da Hiv è considerato ancora un tabù ma Catherine, dopo un po’ ha rotto il silenzio e ha dichiarato pubblicamente di essere sieropositiva. Così facendo ha trovato al suo fianco 4 donne che come lei avevano contratto l’Hiv e poi ancora altri e altri. Si è trasformata in una leader guadagnando il rispetto della comunità e nel 1994, ha fondato l’associazione Saso (Salima Aids Support Organitation). Le prime riunioni si sono tenute sotto gli alberi dei piccoli villaggi nei quali Catherine andava, poi nel 2000 Saso ha ottenuto il finanziamento di del programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP). Saso si rivolge molto ai bambini orfani. Per loro ha creato il Chidlren’s Corner: ogni sabato gli orfani vengono al centro per avere un pasto completo, composto di carne, verdure, uova e riso o polenta. Ma i bambini vengono seguiti anche nella loro educazione. L’organizzazione paga le rette scolastiche degli studenti, fa tenere loro un diario, li sensibilizza al problema dell’Aids.
Come “Eyes wide open” affronta questa storia?
Non alla maniera di un reportage, non vuole esserlo. Contavamo di finire le nostre riprese nell’agosto 2003, ma quando siamo tornati in Africa è stato troppo tardi. Catherine è venuta a mancare, complice una tubercolosi che ha peggiorato le sue condizioni di salute. Abbiamo dovuto riorientare il lavoro del documentario. Ci siamo trovati e ricostruire ciò che è rimasto di lei nell’attività dell’organizzazione da lei stessa fondata, nei ragazzi e nei suoi collaboratori.
Quanto spazio trova nelle nostre televisioni un documentario di questo genere?
Nessuno. Lavoro molto con la tv, ma solo quando realizzo documentari etnografici di taglio antropologico. Quelli sì piacciono e si vendono. Le tematiche del Sud del mondo invece non interessano, ma le autoproduco e trovo un mercato fuori dall’Italia.
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