Elio Germano: un proletario lontano dai cliché


CANNES – A chi gli chiede come si sente essere in competizione con Javier Bardem per la Palma come attore protagonista, risponde subito: “Quindi ho già vinto, nel senso che è già una vittoria essere in competizione con questo meraviglioso interprete spagnolo”. Elio Germano torna per la seconda volta sulla Croisette e di nuovo con Daniele Luchetti. Nel 2007 insieme a lui c’era Riccardo Scamarcio il fratello bello di Mio fratello è figlio unico, ora c’è Raoul Bova un altro fratello non meno bello, ma timido e un po’ introverso di La nostra vita. Un film, in competizione, che Luchetti ha elaborato mentre girava un documentario sull’assegnazione di case popolari ad Ostia. E’ allora che gli è venuta l’idea di provare a raccontare, immaginando una giovane famiglia con tre figli, una storia che parlasse di quella classe che una volta avremmo definito ‘proletariato’. Per il regista quella gente che per tanti anni è stata presente nel nostro cinema, oggi non più, meritava di essere mostrata “con sguardo trasparente e paritario”.

 

Chi è Claudio, il suo personaggio?
Un ragazzo che ha perso entrambi i genitori, è l’ultimo di tre fratelli e fa l’operaio, ha una piccola ditta ed è un giovane che si dà da fare, sveglio, già sposato con due figli e un terzo in arrivo. Ecco il film racconta la vita di questo personaggio, della sua famiglia e del cantiere dove lavora, con tutti gli imprevisti che la vita porta con sé.

Nel film si respira molta spontaneità e vitalità.
Io e Daniele abbiamo scommesso sul fare di questi personaggi delle persone, di mettere da parte le caratterizzazioni schematiche, le definizioni che di solito siamo abituati a cercare: buono o cattivo, simpatico o antipatico. L’azzardo è stato quello di rendere il più tridimensionale possibile queste vite, di farne delle persone normali, non dei personaggi, con le loro difficoltà e contraddizioni.

Nel film tutto sembra autenticamente vero.
Bisognava fare a meno della recitazione, cioè l’idea di essere presenti sempre a se stessi, di capire e razionalizzare tutto. Per questo tipo di film occorreva un atteggiamento più emotivo e imprevedibile, meno razionale sicuramente. Per la scena del funerale abbiamo lavorato molto sul prima, sulla canzone che Claudio ed Elena avrebbero ascoltato insieme, alla quale potevano essere legati. Abbiamo girato e recitato in maniera completamente aperta e sul set sono successe diverse situazioni, poi in montaggio Daniele ne ha scelta una sola.

 

Come hai lavorato con gli altri interpreti: Isabella Ragonese, Raoul Bova, Luca Zingaretti, Stefania Montorsi?
Il modo è stato quello di inventare un passato condiviso tra tutti i personaggi, per imitare la vita. Anche perché la messinscena di Daniele richiede che tutti siano pronti sul set a far succedere qualcosa di nuovo. E’ un regista molto libero e decide di volta in volta cosa scartare, cosa deve accadere e se qualcosa di interessante succede mentre si gira dice subito di rubarla. In un film così realizzato sono fondamentali il lavoro di squadra e una troupe di alto livello tecnico.


Quanto ha ragionato su come esprimere il dolore di Claudio?
Poco direi, ad alcune cose non ci si può preparare e del resto nella vita reale non ci si arriva mai preparati a una perdita. Ho cercato di sostituirmi in questo modo al personaggio. Daniele voleva che Claudio avesse dei problemi con la sua sfera emotiva, con l’aspetto affettivo nei confronti di se stesso, dei figli e delle persone che gli stanno intorno. La prima reazione era allora di chiusura. Ma quel dolore, che accompagna Claudio per tutto il film, ha richiesto poi che in alcuni momenti particolari lo sfogasse, facendone così un personaggio combattivo e vitale.

Il film è ambientato in quei quartieri nuovi di Roma nati oltre il raccordo, quartieri tutti identici e in fondo con un’aria di provvisorietà?
Ma a questa bruttezza architettonica corrisponde una sorta di bellezza dei suoi abitanti, per lo più coppie giovani in cerca di una possibile sistemazione. Sono giovani vitali e con uno spirito positivo che abbiamo cercato di restituire nel film.

Da subito avete deciso che il finale fosse quello visto sullo schermo?
Non ricordo se fosse questa la scena prevista. Daniele si prende tante libertà anche in fase di montaggio, come sul set. Il senso forte finale è comunque rimasto quello deciso all’inizio, cioè di un primo momento di ottimismo, di ritrovata affettività soprattutto con i figli.

 

In una situazione sociale dove lo Stato è assente e l’illegalità diffusa, Claudio trova un ancoraggio nella famiglia.
Le periferie del mondo si assomigliano tutte, siamo in Francia pensiamo alle banlieue. Laddove lo Stato viene meno e i servizi non ci sono, si trova qualcosa di alternativo. Noi abbiamo inventato come nazione la mafia che è anche “la famiglia”. Nel quotidiano più piccolo c’è invece questo tessuto familiare che si sostituisce allo Stato quando servono dei soldi e la banca non te li dà, oppure non passa un autobus e chiedi al parente o al vicino di accompagnarti i figli a scuola.

Ha terminato di girare “La fine è il mio inizio”?
Sì, uscirà forse tra ottobre o novembre. E’ un dialogo tra il giornalista e scrittore Tiziano Terzani e il figlio Folco che riprende il libro omonimo postumo scritto a quattro mani. Un dialogo sulla vita e soprattutto sulla morte di Tiziano padre, sul concetto di morte. Più che un ritratto della famiglia è quasi un saggio di filosofia orientale che sembra appartenere a un’altra epoca.

E poi tornerà a lavorare con Paolo Franchi che lo ha diretto in “Nessuna qualità agli eroi”?
Probabilmente, perché il suo film E la chiamano estate è ancora in fase di scrittura, non ho ancora letto la sceneggiatura e non so che personaggio farò.

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