VENEZIA – Dopo Favolacce, premio per la sceneggiatura alla Berlinale, erano molto attesi nel concorso veneziano i gemelli Fabio e Damiano D’Innocenzo. Appena all’opera terza, ma già preceduti da una fama cospicua, i 33enni fratelli romani, orgogliosamente di Tor Bella Monaca, sono gli enfants prodiges del cinema italiano. E il loro nuovo film, America Latina, intende confermare la loro fama di autori originali, dallo sguardo spietato e tenero allo stesso tempo sulla società contemporanea e soprattutto sulla piccola borghesia, resa nella sua ordinaria mostruosità. E’ in pratica un marchio di fabbrica e occorre esserne all’altezza, ma il rischio di risultare retorici o simbolici, come ammettono loro stessi, è sempre dietro l’angolo.
Il titolo gioca sulla location, la zona di Latina, “paludi, bonifiche, centrali nucleari dismesse, umidità”, così la descrivono. Massimo Sisti (Elio Germano, attore feticcio dei due, qui quintessenziale, ripreso in primissimi piani che lo indagano quasi al microscopio) è un dentista benestante e buon padre di famiglia – a parte qualche bevuta con un amico. Vive in una strana villa immersa nella campagna desolata, una villa scombinata e dissonante, con una piscina dalla forma inquietante e una scala d’ingresso che sovrasta il nulla. L’uomo ama molto la moglie Alessandra e le sue due figlie Laura e Ilenia. “È in questa primavera imperturbabile e calma che irrompe l’imprevedibile: un giorno come un altro Massimo scende in cantina e l’assurdo si impossessa della sua vita”.
Oltre questa sinossi è difficile andare senza rivelare il meccanismo ambiguo del film che ci trascina dentro un mondo fatto al contempo di amore (?) e violenza, un mondo forse solo mentale che si muove tra due livelli con frequenti discese in cantina. “Amore significa ricongiungersi ai propri fantasmi e ossessioni, nell’incertezza dell’avvenire: variabili impazzite in un film profondamente tenero. Per di più, io sul set mi sono innamorato”, sintetizza Fabio D’Innocenzo. I due sono emozionati, tanto da non riuscire a dormire, per questo passaggio veneziano.
Il film, prodotto da The Apartment, Vision e Le Pacte, in sala dal 13 gennaio con Vision Distribution, “non è un thriller – spiega Damiano – anche se è misterioso, volutamente ambiguo, semmai possiamo parlare di thriller psicologico. Noi due amiamo i generi, che hanno regole precise e aiutano a far decollare la storia. America Latina poi contiene la voglia di non ripetere quello che abbiamo già fatto perché vogliamo rimanere scomodi anche per noi stessi”.
Elio Germano, che in Favolacce aveva un ruolo centrale in una struttura corale, stavolta porta il film quasi interamente sulle sue spalle, anzi sul suo volto e sulla sua nuca, contornato da alcune figure femminili a tratti evanescenti o indecifrabili (sono la moglie Astrid Casali, le figlie Carlotta Gamba e Federica Pala, oltre a Sara Ciocca): “I gemelli mi hanno chiamato a fare un lavoro non di costruzione ma di decostruzione, dovevo permettere alla macchina da presa di entrare in me, perdermi nel meccanismo, lasciarmi andare. Massimo è l’antitesi del macho forte e vincente. E’ il rovesciamento di quello che siamo chiamati ad essere in questa società. La sua delicatezza e sensibilità gli permettono uno scavo interiore”. Un personaggio quasi opposto a quello di Favolacce, dunque, ma con esiti altrettanto drammatici. E anche in questo caso sono citati fatti di cronaca in cui la violenza fa irruzione in un contesto familiare. “C’è un imbuto finale che risucchia il personaggio – spiega Fabio – e deve rimanere tale. Ma possiamo dire che il femminile ci salva, l’amore riesce a rimettere i vetri rotti a posto. Anche l’amore non corrisposto, platonico, fraterno, ogni tipo d’amore fa decollare la vita. Quando amiamo ci sentiamo migliori e rendiamo il mondo più bello”.
Tanti i riferimenti cinefili, da Sofia Coppola a Peter Weir, da Hitchcock a Bergman ed Ermanno Olmi. E il mondo della pittura con la costruzione del set e delle inquadrature accuratissima. “La prima idea del film – prosegue Fabio – l’abbiamo buttata giù a Berlino, quando eravamo in attesa di sapere se Favolacce avrebbe vinto e quasi per tenere a freno l’ansia. Così siamo andati verso un film meno frammentario, un film dritto con un personaggio che vive la storia e ce la fa vivere sempre insieme a lui. E’ una storia immersiva, che ci porta dentro la mente, un viaggio al termine di un uomo, per parafrasare Céline”.
Elio Germano spiega il titolo: “America Latina è una antinomia tra un’America ideale, che rappresenta il come vogliamo apparire, e un luogo che è una palude. Come si realizza la performance nella nostra società? Nascondendo delle parti di noi in uno scantinato. La sensibilità non va di moda e l’uomo sensibile, fragile, scopre questa frattura, questo bipolarismo. Cerca di fare un viaggio per ritrovarsi”.
Importante anche la figura del padre, interpretata da Massimo Wertmuller: “Quella dell’incontro tra padre e figlio – ammette Fabio – è una scena fondamentale del film. Il rapporto del protagonista con il padre è un rapporto castrante. Un elemento che abbiamo introdotto spesso nei nostri film. I figli devono riuscire a interpretare gli errori dei genitori e farne qualcosa di buono. Quel padre, maschio alpha, conduce una vita triste e disperata; il figlio ha scelto un’altra strada”. Come si sentono, i fratelli, nel concorso di Venezia? “Io mi caco sotto, onestamente – ammette Damiano – Per scordarmi di questa codardia, tentiamo di fare sempre più cose, per non soffermarci su quello che gli altri si aspettano da noi. Magari scrivere poesie che leggiamo tra noi”. E ora stanno finendo la stesura della serie Dostoevskij che gireranno l’anno prossimo.
A proposito della location del film: “E’ una villa impossibile, sbagliata, come un dente storto – spiega Damiano – con una piscina che sembra possa ferire. L’abbiamo trovata tra gli scarti dello scenografo. Era impresentabile. Rispecchiava l’ambiguità, la doppiezza del personaggio”. “Siamo del segno del Cancro – aggiunge Fabio – un segno d’acqua e l’acqua ci appartiene e ci attrae. Anche Latina è una città fondata sull’acqua, sulla bonifica”. E l’acqua ha a che fare anche con la cantina, che sembra essere un elemento ricorrente nel cinema contemporaneo (basti pensare a Parasite).
Sull’ambiguità del racconto, che non spiega e non risolve mai fino in fondo. “Il dialogo con lo spettatore – dice Damiano – è per noi necessario. Non tutto viene spiegato e compreso, verrà metabolizzato con il tempo e questo è un modo per non far finire mai il film, anche se dura solo 90’ come una partita di calcio”.
E per Massiliano Orfei di Vision Distribution: “Parlare di pubblico, in questo momento, è un’avventura dello spirito e una potenziale trappola. Con Favolacce avevamo in animo un’uscita importante, ma poi le sale sono state chiuse dal lockdown, eppure abbiamo avuto molta visibilità sulla piattaforma e un incasso di 300mila euro in piena estate. Adesso ci giocheremo la partita in una data importante, a fine novembre. E’ un momento molto fluido per il mercato”. Mentre il produttore Lorenzo Mieli (The Apartment) ammette che da anni seguiva Fabio e Damiano: “Sono registi nuovi, ogni volta ero spiazzato e turbato da quello che vedevo. America Latina inquadra la commovente ricerca di identità: chi sono io, sono in grado di amarmi, essere amato, perdonarmi. È il frutto del lavoro di artisti veri, perturbanti”.
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