ELDA FERRI


Elda Ferri, autorevole nome alla guida degli ultimi successi cinematografici di Roberto Benigni, afferma perentoria che proprio perché si tratta di un lavoro che da tempo non arricchisce più, si è paradossalmente aperto alle donne. “Credo che il cinema italiano versi in condizioni gravi”, aggiunge, “ma proprio dalle produttrici arrivano i tentativi più coraggiosi per rianimarlo. Sono loro a fare i film più difficili, perché ci credono. E non li abbandonano mai, permettendo a un pubblico più vasto di seguirli”.
Racconta, per esempio, che con Jona che visse nella balena ha lavorato tre anni anche solo per ricoprire i costi. “In Italia si assiste al triste fenomeno di mostrare entusiasmo per incassi che sfiorano appena uno o due miliardi, il che vuol dire al massimo centomila contatti. Si fa finta di dimenticare che, belli o brutti che siano, i film hanno invece un potenziale serbatoio di spettatori di almeno 500mila persone”. Questo accredita, a suo avviso, solo certi vizi distributivi, “mentre un grosso problema resta proprio quello della gestione delle sale”. Un accordo più forte tra produttori, distributori ed esercenti è quantomeno auspicabile. “Inoltre, sono sempre stata particolarmente attenta al dialogo con le scuole. Perché mi interessa fare un cinema che contribuisca all’attività formativa. Certo, sono stata fortunata. Roberto Benigni è di per sé un valore aggiunto assoluto. Ma la sua eccezione non salva da sola il cinema italiano”.
Prima di tutto è necessario risolvere alcuni nodi strutturali, superare un gap tutto italiano in fatto di marketing. “Si figuri che a me, per esempio, hanno sempre detto che sbagliavo i titoli dei miei film. E anche questi sono errori che si pagano”.
“Parlando poi con il pubblico più giovane si scopre che l’informazione cinematografica passa soprattutto attraverso la tv. La capacità e i budget investiti per rendere visibile il prodotto diventano quindi determinanti”.
Per evitare questioni di lana caprina e prima di decidere se è un film è bello o brutto, Elda Ferri consiglia di non considerarlo un prodotto che si esaurisce solo nelle sale. “Mantenendo aperto il dialogo con il pubblico noteremo così che un lavoro di due/tre anni non si può consumare in poche settimane”.

09 Maggio 2000

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