GIFFONI – Non c’è il dopoguerra, non c’è il bianco e nero, non ci sono gli attori presi dalla strada, ma potrebbero essere “solo dettagli” quando ci si appresta a guardare El ladrón de perros (Ladro di cani), perché il Neorealismo sembra proprio aver fatto scuola alla storia di Martín, che è esattamente uno sciuscià, soltanto che non fa il lustrascarpe sui marciapiedi di via Veneto a Roma, ma tra le strade tentacolari, vorticose, labirintiche di La Paz, Bolivia.
Martín s’incammina quotidianamente su un doppio binario di viaggio, quello della crescita umana, che affronta da orfano, ecco così emergere lo spirito del coming of age del film; e, al contempo, il viaggio perpetuo, un pellegrinaggio laico, tra le vie della capitale boliviana, rivoli di esperienza, di scoperta, di timore, che fanno del bambino l’allievo della strada, che – nonostante tutto – si dimostra migliore amica rispetto alla scuola, frequentata a intermittenza, ma anche nido amaro di bullismo per quell’adolescente che si copre il viso con un passamontagna per evitare di essere discriminato mentre lucida le scarpe che “puzzano” di altoborghese: Franklin Aro, il protagonista, è al suo debutto cinematografico, con un volto quasi monotono, quasi per nulla mimico, un’espressività qui calzante a restituire la malinconia e l’apprensione dello stato d’animo; accanto a lui un maestro del cinema latinoamericano, Alfredo Castro, il señor Novoa nella vicenda.
È vero, è mesto, triste e drammatico che Martín sia orfano, la sua solitudine si palpa, commuove, ma la vita a suo modo si riscatta e gli dona una famiglia, certo bislacca o, quantomeno, non canonica, ma un tetto sopra la testa ce l’ha ed è quello della casa della señora Ambrosia (Ninón Dávalos), che nella lettura della storia potrebbe essere profilata come una nonna, lei, anziana signora benestante, accudita da Gladys (María Luque), amica della defunta mamma.
Novoa, in questo quadro, è il più meticoloso cliente di Martín, sarà per l’altrettanto accurato suo mestiere, infatti è un anziano sarto che come compagno di vita ha scelto Astor, pastore tedesco plurimedagliato, a cui – in questa storia di figli soli e di padri mancati – il personaggio di Molina presta tutte le sue cure, come si farebbe con un figlio.
Un po’ come nel film di De Sica, Sciuscià appunto, i piccoli protagonisti erano coinvolti in un furto (lì contro la loro volontà, nella casa di una cartomante), qui Martín e i suoi amichetti progettano un ladrocinio, non certo come atto criminale, ma affamati dal bisogno di qualche soldino in più, che quella sua vita da calzolaio di strada gli fa proprio centellinare: il cane di Novoa è l’obiettivo del rapimento, a fine di riscatto.
E qui s’innesca una storia sulle colonne portanti delle società famigliari: ci sono figli e padri, orfani e mancati, surrogati di sogni infranti e di desideri mai realizzati; è così che Martín, la sua coscienza, il suo senso di sopravvivenza, vengono chiamati in causa e tocca a lui essere artefice del suo destino, che poi ha una naturale ricaduta su quello del sarto, in un circolo naturale che si muove tra furberia e gentilezza e, come accade talvolta nella vita reale – e quella dell’orfano tredicenne lo è più che mai, essendo una narrazione altamente realistica per quella zona del mondo, l’essere umano deve compiere la propria scelta al bivio, perché è la consapevolezza si acquisita in quel preciso punto, che battezza il futuro.
Se il sapore del film può appunto muovere memoria e corde neorealisti, la messa in scena attualissima e la peculiarità del luogo, La Paz, rendono il film tutt’altro che un aggiornamento nostalgico di un genere che ha fatto la Storia del Cinema, perché le atmosfere dei vicoli e delle vie che Martín batte, e così certi contrasti cromatici e di controluce della fotografia di Sergio Armstrong, restituiscono una visione tra un ricercato folklore e un’atmosfera da Polar contemporaneo, echeggiata da un perfezionato lavoro sul suono: a La Paz il rumore degli spari può tagliare il silenzio ma, altrettanto, la città è pullulante di un arcobaleno di suoni diegetici che danno personalità al luogo, e il lavoro di sound design (Federico Moreira), con quello musicale di Wissam Hojeij, consegnano un’atmosfera di dettaglio, una cura che evidentemente a Tomicic sta a cuore, perché rintracciabile anche nella scenografia di Valeria Wilde Monasterios, preziosa nell’architettura e nel decoro della sartoria, così come nella casa della señora Ambrosia.
El ladrón de perros è coproduzione Easy Riders Films (Francia), Movimento Film (Italia) – che lo distribuisce nell’autunno 2024 -, Color Monster (Bolivia), Calamar Cine (Cile), Zafiro Cinema (Messico) e Aguacero Cine (Ecuador).
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