I rapporti tra padre e figli non sono mai facili. Anche quando si va d’accordo si può rimanere atterriti al pensiero di non essere all’altezza di quello che il proprio genitore ha fatto, detto, rappresentato. Ne sapeva qualcosa Amleto, il principe di Danimarca rimasto inconsolabile dopo la morte del padre che amava tanto. Ma che succede invece quando il genitore in questione è un criminale nazista che si conosce appena. Un padre abominevole agli occhi del mondo a cui capita di essere legati per destino e casualità. Si può sopportare il peso di un’eredità così scomoda senza venire meno alla propria integrità morale? E’ questo l’interrogativo alla base di My father – Rua Alguem, 5555, film diretto da Egidio Eronico ultimato dopo due anni nel 2003, finalmente in uscita nelle sale italiane il prossimo 1 giugno distribuito da AB Film. Prodotta dalla società italiana Gam Film di Roma insieme alla Total Entertainment (Brasile) e alla Focus Film (Ungheria), la pellicola è tratta dal romanzo tedesco “Papa” scritto da Peter Schneider, edito in Italia da E/O Edizioni.
Basato sul vero incontro tra Josef Mengele, medico delle SS in servizio ad Auschwitz conosciuto come l’angelo della morte, e il suo unico figlio, Rolf, avvenuto nel 1977, My father racconta il viaggio dall’Europa al Brasile compiuto da Hermann, un uomo sulla trentina che non ha mai visto il padre, e che spera di convincerlo a costituirsi per i crimini commessi durante il Terzo Reich. Costata 6 milioni di dollari l’opera, girata in inglese e realizzata anche grazie al supporto della Presidenza del consiglio, dipartimento dello spettacolo Ministero per i beni e le attività culturali, vanta un cast internazionale grazie alla presenza di Thomas Kretschmann, F. Murray Abraham ma soprattutto di Charlton Heston.
Come è riuscito ad avere Heston nel suo film. Aveva già in mente lui per il ruolo di Mengele?
Quello che sapevo per certo era che volevo un attore di lingua tedesca. Mi sarebbe piaciuto Maximilian Schell ma per impegni di lavoro, prima, e problemi di salute, poi, non è stato possibile lavorare insieme. Così ho pensato a Anthony Hopkins che pur avendo trovato il ruolo molto interessante non poteva aderire al progetto perché vincolato da un contratto con una major americana. Fu allora che mi chiamò Heston. Il suo agente gli aveva fatto leggere il copione e lui ne era entusiasta. ‘Sarebbe un onore concludere la mia carriera con questo ruolo’ mi disse. Ma sono io che devo ringraziarlo: a 78 anni ha rinunciato agli agi degli studios per stare sotto al sole brasiliano con 43 gradi all’ombra e il 93% di umidità.
Un film non facile da realizzare per il quale sono stati necessari 11 anni di genesi. Perché si è imbarcato in questa avventura?
Sono un appassionato di Storia perciò ho letto il libro nel 1989. Il romanzo mi aveva molto colpito per due motivi: conoscevo le gesta di Mengele e avevo appena perso mio padre. Mi immedesimai non per il rapporto tra i due. Io andavo molto d’accordo con lui, ma mi chiesi cosa avrei fatto io al posto di Rolf Mengele. Avrei denunciato mio padre una volta saputo dove si trovava? Ecco volevo che lo spettatore si ponesse lo stesso dilemma.
Ha girato un film così impegnativo solo per far riflettere il pubblico su un dilemma morale.
Non solo. Mi piaceva l’idea di realizzare una pellicola sulla tragedia dell’Olocausto non dalla parte delle vittime, ma dei carnefici. Dopo Schindler’s List e soprattutto dopo Il pianista non sono più necessari film del genere. Con My father invece si poteva affrontare una sfida diversa mostrando l’orrore di quei fatti anche attraverso lo scontro generazionale. Quindi incontrai l’autore del romanzo, Schneider, che qui da noi, a Sperlonga, stava mettendo su casa e firmammo l’accordo per i diritti del libro.
Come mai un film evento speciale alla Berlinale del 2004, distribuito con successo già in molti paesi del mondo non era ancora uscito proprio nella nazione che lo ha pensato e finanziato?
In generale se non c’è un produttore robusto alle spalle un film nasce gracile. Non penso sia il caso di My father che ha avuto un grosso budget ed è un prodotto internazionale. In Giappone ad esempio è diventato un cult movie. Semplicemente all’epoca in Italia non c’era un distributore che si impegnasse veramente. Ma riscontri positivi li abbiamo avuti comunque anche da noi attraverso delle anteprime ad Alatri e Udine davanti ad una platea di ragazzi tra i 14 e i 17 anni. Mi fa molto piacere che il film sia piaciuto ad un pubblico giovane. Forse siamo davvero riusciti a raccontare le dinamiche universali alla base del rapporto tra genitori e figli.
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