Edoardo Winspeare: “Non è più un paese per galantuomini”


L’ultimo suo lavoro, Il miracolo, presentato in competizione alla Mostra del cinema di Venezia, risale a cinque anni fa. Nel frattempo è sfumato il progetto proposto da Cattleya a Edoardo Winspeare, il 43enne regista salentino, e ispirato alla figura del tenente italiano Amedeo Guillet. Una sorta di Lawrence d’Arabia in terra eritrea che, durante la Seconda Guerra Mondiale, combattè in Africa contro gli inglesi, comandando un reparto di cavalieri eritrei, libici e sauditi. “Ci sono stati problemi con l’Eritrea, un paese complicato e in conflitto con l’Etiopia, e che si offendeva continuamente con il governo italiano per passate ragioni coloniali – spiega il regista – Un progetto rimasto in piedi per parecchio tempo, tra il 2004 e il 2005, tanto che eravamo pronti a girare, c’è stata una preparazione, lo scenografo è pure andato in Eritrea”.

 

Svanito il tenente malato d’Africa, Winspeare ha continuato a occuparsi del sua amata terra salentina, dove vive. E’ diventato portavoce ufficiale di Coppula Tisa, un’associazione in difesa dell’ambiente e del paesaggio, e ha firmato alcuni cortometraggi e documentari come quello sulla festa della fòcara a Novoli, e un altro per la Caritas sui rifugiati politici. E di nuovo il Salento e i suoi abitanti, un microcosmo che con le sue vicende parla secondo Winspeare al mondo intero, torna in Galantuomini in concorso al Festival internazionale del film di Roma. Scritto insieme ad Alessandro Valenti, suo sceneggiatore da sempre, e Andrea Piva, il film è prodotto da Fabrizio Mosca per la Acaba Produzioni e da Rai Cinema con il contributo del ministero per i Beni e le Attività culturali, e sarà in sala con 01 Distribution dal 21 novembre.

 

Questo nuovo film è più vicino a “Il miracolo” o al suo esordio “Sangue vivo”?

Sono tornato alle origini, intanto perché Galantuonimi è ambientato non a Taranto come Il miracolo, ma a Lecce e provincia, in paesi come Novaglie, Tricase, Ugento, Felline, Specchia, Merine, Corsano. E poi è un melodramma che racconta la storia di un amore impossibile, con una struttura un po’ noir. O meglio il noir è solo il pretesto, perché c’è un’indagine. Ci sono gli elementi tipici dei miei altri lavori: la presenza in parte di attori non professionisti, il dialetto salentino per circa un terzo del film, anzi un po’ meno altrimenti il pubblico si spaventa.

 

Come è nato il film?

All’origine c’è lo shock di scoprire che la mia terra, priva di tradizione e cultura mafiosa, fosse contaminata. E anche il fatto di conoscere amici magistrati, come Leone De Castris, figlio di una storica buona famiglia leccese, così somigliante nel fisico e nell’eleganza al personaggio interpretato da Fabrizio Gifuni. Mi sono chiesto come si potesse essere magistrati in una nostra città di provincia, dove tutti noi conosciamo persone corrotte.

 

Il titolo è anche quello di una novella rusticana di Giovanni Verga?

Sì, ma è un caso. Il film potrebbe intitolarsi “Non è più un paese per galantuomini”. Cè un galantuomo ed è il magistrato Fabrizio Gifuni che verrà messo di fronte al dilemma tra una vita secondo la propria legge, seguendo gli insegnamenti del padre avvocato cioè di comportarsi rettamente, oppure vivere l’amore folle per una donna criminale.

 

Il titolo è sempre stato questo?

Sì, nello script originario c’erano delle figure di galantuomini che erano i genitori dei nostri personaggi. Poi nella nuova versione sono stati eliminati, ma il titolo è rimasto perché ci piaceva, ha un’accezione anche ironica.

 

In che senso?

Perché questa è una terra felice rispetto al resto del Sud, un territorio dove non c’è tradizione mafiosa. O meglio era un’isola felice fino al momento in cui ci siamo accorti, come se avessimo perso la verginità, che c’erano la corruzione, che la camorra e la ‘ndragheta volevano impossessarsi del territorio, poi finito nelle mani di criminali locali.

 

Chi sono i protagonisti?

Sono tre amici, il film inizia con loro ragazzini negli anni ’60, per poi ritrovarli negli anni ’90, al tempo della sanguinosa guerra tra clan e fazioni della Sacra Corona Unita per il controllo del territorio. Ignazio è il figlio del grande borghese, Lucia è la figlia di contadini che poi diventa una criminale e Fabio è il più estroso di tutti, che ritroviamo tossicodipendente. E la vicenda parte dalla morte di Fabio per overdose. Faccio film per raccontare dei personaggi, lavoro molto su di loro a partire dalla sceneggiatura e dalla cinepresa che è molto vicina con primi piani e camera a mano.

 

Perché ha scelto Gifuni per il ruolo del magistrato?

Ha un’aria intellettuale ed elegante, sembra proprio una brava persona. E poi ha il dilemma scritto in faccia – ‘E’ giusto quel che faccio o no?’ – non ha bisogno di recitarlo. Inoltre è un grande imitatore di accenti, lavora con la lingua e la voce, e ha restituito la cadenza da leccese perbene.

 

E Donatella Finocchiaro?

E’ una straordinaria attrice dal viso intenso, mi fa pensare a un’Anna Magnani di oggi. Il suo accento siciliano mi ha aiutato, perché simile a quello di Lecce. In fondo i salentini sono una sorta di siciliani. Il suo personaggio, Lucia, è una donna intelligente, circondata da questi ‘bambini’ che giocano alla guerra. Una donna spietata e dura che fa uccidere persone come il suo uomo. Ma la scelta criminale per lei non è così ovvia come per tutti gli altri. Anche per lei, madre di famiglia, c’è il dilemma tra la sua legge, cioè i codici della criminalità, e la passione amorosa.

 

E gli altri interpreti?

Lamberto Probo, un attore locale già visto in Sangue vivo e Pizzicata, è Fabio, il tossicodipendente. Beppe Fiorello è Infantino, un cocainomane un po’ cialtrone, che ha fatto un figlio con Lucia. Giorgio Colangeli è il boss.

 

Ha avuto una conoscenza diretta dei questi criminali?

Alla fine degli anni ’90 ho insegnato la materia cinema nelle sezioni maschili e femminili di alcune carceri. Ho così conosciuto numerosi affiliati che, a differenza di quelli di altre organizzazioni, erano pronti a confessare. In Puglia abbiamo una percentuale dell’80% di collaboratori di giustizia, contro il 10/15% in Calabria. In fondo i nostri, anche se responsabili di gravi reati, non sono molto seri come criminali.

 

Come li descrive?

Come dei perdenti, anche perché sono delle mezze calzette. Di fronte a noi ci sono dei personaggi grotteschi, dei bambinoni che giocano alla guerra, ma pericolosi.

 

Che commento musicale ha scelto?

Ho rinunciato a Officina Zoé, il gruppo di musica popolare di ricerca utilizzato per le mie due precedenti opere, e ho voluto un jazzista straordinario come Gabriele Rampino.

autore
02 Ottobre 2008

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