EDOARDO WINSPEARE


VIDEO-INTERVISTA:
Edoardo Winspeare

“Sei mesi prima del ciak mi sono trasferito a Taranto, apparentemente è vicina a Lecce, 70 chilometri circa, in verità è come andare in Lapponia”. Scherza Edoardo Winspeare su questa sua apparente fuga dal Salento, la terra che ha nutrito i due film precedenti, Pizzicata e Sangue vivo. Due opere intrise profondamente della cultura, delle atmosfere, della gente di quella parte di Puglia tanto amata e vissuta, e tuttavia universalmente riconosciute nei più di 60 festival a cui sono state invitate. Con Il miracolo, in Concorso a Venezia, Winspeare prova ad emanciparsi da quella produzione e per la prima volta non firma la sceneggiatura, sempre di Giorgia Cecere a cui s’affianca Piepaolo Pirone.

Come è nata l’idea del film?
La storia nasce da lunghe conversazioni con gli sceneggiatori, volevo raccontare la capacità di percepire la dolcezza, la bellezza e l’amore laddove nessuno riesce più a coglierli. In una società borghese, cinica, consumistica, priva di poesia, un bambino come il protagonista Tonio riesce a vedere la poesia dove nessuno la vede. Una storia molto semplice, ma ho impiegato 2 anni per raccontarla, perché alla semplicità si arriva attraverso un processo complesso. E volevo un bambino come protagonista, cioè uno sguardo innocente e un’intelligenza innocente e leggera.

La parola ‘miracolo’ richiama la religiosità.
Più che religioso mi considero spirituale, visto che credo alla sopravvivenza dell’anima. Comunque racconto un miracolo laico, quello dell’amore: quando ami qualcuno può accadere qualcosa di straordinario e il bambino cambierà la vita delle persone intorno a lui.

E ha scelto come location Taranto.
Mi interessava descrivere una città così cinematograficamente affascinante e poco esplorata. Avevo bisogno di una città che avesse come Taranto gli elementi di aria, fuoco, terra e acqua. Una città orizzontale, che prende la forma dei suoi ponti, con l’impianto siderurgico più grande d’Europa, simbolo di quella politica industriale selvaggia che ha distrutto in poco tempo il tessuto sociale. Una città dai contrasti forti: chi abita nella Taranto vecchia non parla l’italiano e chi risiede in quella nuova non conosce il dialetto.

La sua, lei scrive, è una storia di forte realismo.
Sono molto interessato al realismo, lo manipolo per raccontare i sogni. Del resto il mio sguardo è antropologico, provenendo dal documentario.

Ci sono poesia e magia in questo realismo?
Come i miei colleghi Mereu, Ciprì e Maresco, Piva, stando alla fine della terra siamo in realtà all’inizio del mondo. La terra si restringe sempre di più e comincia il mare, così da Santa Maria di Leuca noi ci volgiamo verso Corfù, i monti dell’Epiro, Costantinopoli, l’Oriente. Quel mare che ci sta di fronte è quello attraversato da Enea che in fuga da Troia approdò a Porto Badisco, come mi raccontava mio padre.

Nonostante tutto in questo film, come in “Sangue vivo”, la speranza non muore.
Nei miei panorami di povertà materiale e morale, di perdita dei valori, ci sono comunque persone che vivono da uomini o muoiono in piedi. Il bambino protagonista insegna al padre a vedere la vita con occhi diversi, il genitore vorrebbe venderlo alla tv, ma alla fine capisce che tutto ciò non ha senso. E intanto il piccolo Tonio fa cose molto semplici, guarda il cielo da diverse angolature, lo scintillio dell’acqua.

Annotazioni tecniche?
Non abbiamo privilegiato i colori primari, ma i muri scrostati di Taranto, il tufo che ha conosciuto l’usura del tempo. E poi molti ralenti, in funzione di “soggettive amorose”, ma realizzati con misura in modo che diano l’idea della sospensione. C’è poi questo effetto speciale realizzato con un dolly leggero: la luce meravigliosa, straordinaria, ma anche naturale che il bambino vede quando è in coma e il suo distacco dal corpo.

Torna la collaborazione musicale con Officina Zoè.
In Sangue vivo avevano scritto e suonato durante le riprese ed erano parte integrante della storia. Qui invece hanno composto le musiche dopo che abbiamo girato.

E per il futuro?
Girerò un film in Africa ispirato alla storia del tenente Amedeo Guillet che ha combattuto un anno contro gli inglesi. L’idea è quella di un colonialista che cambia totalmente il suo punto di vista, una volta a contatto con quel continente, tanto da convertirsi all’Islam.

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