TRIESTE – Nanni Moretti l’ha scelto per la rassegna Bimbi belli, 11 esordi del cinema italiano in programma all’Arena Nuovo Sacher dal 12 al 22 luglio; il festival Maremetraggio gli ha dato due premi, quello della critica come miglior opera prima e quello della Fondazione Antonveneta al miglior attore, assegnato poi ai due protagonisti. Non è stato altrettanto fortunato in sala Diciotto anni dopo di Edoardo Leo – che lo ha sceneggiato e interpretato insieme a Marco Bonini – penalizzato sia dalla data estiva di uscita, il 4 giugno, sia dalle poche copie.
La storia di questo malinconico road movie è semplice. Due fratelli, Mirko un meccanico balbuziente e introverso, Genziano un aggressivo broker trasferitosi a Londra, si rivedono dopo diciotto anni alla morte improvvisa del padre, che ha lasciato scritte le ultime volontà. Porteranno le sue ceneri sulla tomba della loro mamma, sepolta in Calabria, con una vecchia Morgan cabriolet rimessa in sesto dopo l’incidente in cui morì la madre. Comincia così un viaggio tragicomico, tra avventure e incontri imprevisti, tra rimorsi e incomprensioni, che costringerà i due fratelli a fare i conti con il passato e con quell’assurda separazione.
Il neoregista Leo ha un ricco curriculum di attore, in particolare di fiction e serie tv: da Romanzo criminale a Il medico in famiglia, da Liberi di giocare a Ho sposato un calciatore. E sì che l’Accademia d’arte drammatica gli ha chiuso le porte lo stesso anno che non è riuscito a entrare al Centro Sperimentale per il corso per sceneggiatore.
Dopo la menzione speciale al Riff di Roma, i cinque premi al recente Festival di Ibiza, premessa per una probabile uscita in Spagna, il 38enne Leo verrà premiato come regista rivelazione al Festival di Ischia.
Soddisfatto dei due riconoscimenti avuti a Trieste?
Contentissimo, non mi ero posto obiettivi autoriali, volevo solo realizzare un film popolare nel senso più alto del termine. Questo intento onesto è stato compreso da chi mi ha premiato, in un concorso dove erano presenti titoli usciti, a differenza del mio, nella stagione passata e che hanno avuto premi importanti.
Dieci anni avete impiegato tu e Marco Bonini per vedere realizzato il progetto da voi sceneggiato?
La prima versione della sceneggiatura risale a febbraio 2000, il soggetto invece a tre anni prima e la condizione irrinunciabile per la realizzazione del film è sempre stata che io e Marco dovevamo esserne gli attori protagonisti. Marco aveva allora acquistato un’auto d’epoca, una vecchia MG cabriolet con la quale andavamo al mare e durante il viaggio ci dicevamo come sarebbe stato bello fare un film su questa macchina. Ci venne allora l’idea di una coproduzione con l’Inghilterra e la Francia, con un’icona del cinema internazionale come Peter O’Toole che ci confermò per lettera l’intenzione di accettare e con la regia affidata a un inglese. La produzione non decollò e quando il progetto stava per naufragare, decisi a fine 2008 di fare io la regia.
Che cosa accadde?
Che al RomaFiction Fest presentai la commedia Ne parliamo a cena, un pilota di 40 minuti con Carlotta Natoli e Primo Reggiani. Dopo averlo visto il produttore Guido De Angelis della Dap Italy decise di produrre Diciotto anni dopo, io ottenni il fondo per l’opera prima del Ministero e Rai Cinema s’aggiunse acquistando il diritto di antenna. A quel punto la sceneggiatura è cambiata quasi tutta ed è rimasto solo il soggetto di partenza.
Gli altri interpreti come li ha scelti?
Nessun dubbio su Sabrina Impacciatore, è talentuosa e mia amica. Per il ruolo del nonno ho cercato un ultraottantenne e la rosa italiana è ristretta. E ho scelto Gabriele Ferzetti che non hai mai ricoperto un ruolo da commedia. Andava bene con quella sua aria così severa, tanto più in rapporto con un altro degli interpreti, il bambino di quattro anni. Mi sembrava una frizione giusta.
Quanto c’è di autobiografico nel suo esordio?
Assolutamente nulla, mi piace raccontare delle storie al cinema e nella vita quotidiana. Ho avuto un’infanzia abbastanza serena, non dovevo realizzare un film catartico e così risolvere i miei traumi. Semmai ho voluto esorcizzare una condizione d’infelicità che non vivo, proprio perché la mia famiglia, con i miei genitori e mia sorella, è unita. Così ho raccontato un nucleo familiare disintegrato e il tema della famiglia è ricorrente anche in quel che scrivo.
Dirigere e interpretare l’opera prima è stata una duplice sfida, ad alto rischio.
Ho sempre amato i registi che scelgono questo doppio ruolo. Sono un fan di Carlo Verdone, adoro Sergio Castellitto, l’ha fatto molto bene Kim Rossi Stuart con il suo esordio, e poi ci sono Sergio Rubini e Nanni Moretti. Sono cinque eccellenze e ora ci hanno provato Rocco Papaleo e Susanna Nicchiarelli. Col tempo ho scoperto, anche se la mia formazione è più da attore, che mi negavo quella sfida e rimuovevo la voglia di recitare i film che scrivo.
La difficoltà maggiore che ha incontrato?
Gli ostacoli più grossi li ho trovati prima del ciak, nel reperire le risorse necessarie e dopo nel momento della distribuzione. Sul set avevo le idee chiare su quello che volevo fare.
Cioè che genere di opera?
Una commedia drammaturgica con una coerenza molto forte. Ho cercato di evitare il film nel quale i personaggi non si divertono e fanno ridere inconsapevolmente, mentre dovrebbero farlo mantenendo la loro coerenza psicologica. E’ quel che i nostri registi sapevano fare fino agli anni ’70: quando c’era di ridere si rideva, e quando c’era da piangere si piangeva veramente. Valga un esempio per tutti, quello de Il sorpasso di Dino Risi.
Ma la commedia dei giovani autori non è così graffiante e cattiva.
Sono consapevole di non possedere la cattiveria di Risi, Monicelli e Scola. Non dimentichiamoci che il loro cinismo era il frutto del periodo che avevano vissuto, cioè la guerra, la fame. Una condizione che la mia generazione non ha certo vissuto, ecco perché a noi manca quel disincanto. E poi la rincorsa alla commedia all’italiana è impossibile, è una competizione già persa in partenza. Un giovane regista non può replicare un momento che non è solo cinematografico, deve emanciparsi da questa pesante eredità.
E se qualcuno ti dicesse che “Diciotto anni dopo” è una commedia buonista?
Non lo è affatto, semmai è aspra. Comincia con la morte di un padre e con il rapporto tra due fratelli che si accusano della morte della madre. Due eventi dolorosi che non mi sembrano da commedia, eppure a partire da questi elementi ho costruito una commedia, senza rinunciare a momenti drammatici come la lotta tra i due fratelli.
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