BOLOGNA. “Non l’ho ancora fatto vedere a Paolo Virzì, è un po’ che non lo sento e forse potrebbe essere l’occasione di rivederlo. Questo mio documentario dedicato a Lindsay Kemp l’ho mostrato invece a Luca Guadagnino, che è stato anche il mio produttore (ndr. Padroni di casa) e l’ha amato molto”. Così Edoardo Gabbriellini che firma Kemp. My Best Dance Is Yet To Come, presentato nel Concorso Internazionale del Biografilm Festival. E’ il racconto dell’ultimo anno di vita di Lindsay Kemp (1938-2018), famoso ballerino, mimo, coreografo e regista, tra memorie e tentativi di mettere in scena il suo ultimo spettacolo dedicato a Nosferatu.
Allievo di Marceau, Kemp fonda la sua prima compagnia nel 1962, e si fa conoscere come sperimentatore, innovativo, provocatorio e visionario del teatro-danza classico e contemporaneo, in particolare negli anni ’70 e ’80. La sua influenza arriva nella musica di David Bowie e Kate Bush e nei film di Ken Russell e Derek Jarman. Kemp. My Best Dance Is Yet To Come andrà in onda su Sky Arte una prima volta il 24 agosto, data in cui ricorre l’anniversario della sua morte e si vedrà al Festival di Asolo.
E’ l’unico lavoro su Kemp?
Un videoartista, turco o armeno non ricordo, ha realizzato un documentario stile anni ’90, con effetti visivi, lontano dal mio stile, che raccontava in maniera molto visionaria e cronologica tutte le tappe della sua carriera.
Come è avvenuto l’incontro?
Tramite vie assurde ho scoperto che Kemp viveva nella mia città, Livorno. C’era un amico comune, un bravissimo parrucchiere di cinema, e così l’ho contattato solo con il desiderio di conoscerlo, senza nessuna intenzione da cineasta. Fino al terzo incontro tutto è rimasto sul piano della conversazione, poi ho capito che valeva la pena documentare questo incontro.
L’idea iniziale di documentario è rimasta la stessa?
Dapprima ho pensato a un documentario classico: raccontare la biografia, in termini di vita vissuta e carriera, raccogliendo testimonianze importanti come quelle di Peter Gabriel, Kate Bush, poi questa impostazione mi interessava sempre meno. Era molto più bello mostrare solo lui, il conversare con se stesso, e ricavarne un ritratto personale, di quello che stavo imparando da lui e quindi essere più empatico. Mi piacerebbe che lo spettatore che non conosce Lindsay, dopo il mio film fosse stimolato a fare una ricerca in rete sui tanti spettacoli che non ho citato.
Come mai Kemp aveva scelto di fermarsi e vivere a Livorno?
Ho provato a chiederglielo varie volte e mi ha dato sempre risposte diverse, forse per il mare, per la bella gente. Mille motivi diversi, tutti veri, tutti falsi. Kemp abitava in un condominio orribile, degli anni ’80, al centro di Livorno accanto al mercato centrale, Uno di quei condomini con l’ascensore in formica e gli infissi in alluminio alle finestre delle scale. Poi quando entravi dentro casa sua superavi un varco spazio-temporale, perché sembrava di essere in un set vittoriano di James Ivory: alle pareti la carta da parati di William Morris. Aveva ricreato il suo mondo in quella abitazione.
Che genere di artista è stato Lindsay Kemp?
Parla di stesso come un poeta-clown perché la sua capacità è quella di innalzarsi cadendo con il sedere a terra, essendo pronto a perdere la dignità. I movimenti fisici sono anche quelli della sua vita, ha avuto altissimi e bassissimi ed è sempre andato avanti perché, come recita il titolo del documentario, “My Best Dance Is Yet To Come”.
Quale fragilità ha colto dietro questa tempra artistica?
La fatica di non dismettere mai la maschera e questo aderire in maniera così forte alla propria maschera che ha costruito nel tempo non è stato certo semplice. Probabilmente ci sono dei momenti in cui ha fatto fatica. Spero di avere trasmesso con il mio film un’intimità, ma Kemp è sempre in scena, lo fa appena s’accorge di avere un potenziale spettatore, non ce la fa a non guardare la macchina da presa. All’inizio pensavo a un documentario che fosse anche di pedinamento, ma non è stato possibile.
I preziosi materiali video d’archivio da lei utilizzati da dove provengono?
Sono sparsi tra materiali BBC, ABC Australia, RSI TV svizzera, non c’è nulla di documenti video italiani, ho trovato qualcosa del Teatro Sistina, ma era di bassa qualità.
L’ha mai visto a teatro?
Purtroppo no, sapevo poco di lui prima di incontrarlo. Era banalmente un nome che associavo a David Bowie, conoscendolo ho scoperto un mondo, tant’è che nel film gli faccio dire “basta David Bowie”.
“Dracula” è stato il suo ultimo sogno artistico.
Era uno spettacolo che da qualche anno cercava di realizzare e di cui, come accenna nel film, aveva preparato gli schizzi dei costumi, delle scenografie, oltre ad aver fatto comporre buona parte delle musiche. Purtroppo c’erano difficoltà produttive perché era uno spettacolo grande e poi Kemp non era più considerato un artista su cui puntare. Insomma faticava a trovare finanziamenti, anche se qualcosa stava per sbloccarsi la scorsa estate.
Ma ormai era troppo tardi.
E’ morto dopo una giornata di prove di “Dracula”. Si tratta della migliore uscita di scena. Del resto ha cominciato a ballare a 10 anni, dunque ha fatto per 70 anni quello che voleva e amava fare. Il suo leitmotiv, “Che il meglio deve ancora venire”, mi ha fatto innamorare del personaggio.
La morte ha ostacolato il documentario le cui riprese erano ancora in corso?
Sarei voluto andare da questo grande artista, tutti i giorni, anche se avevo già materiale per costruire un corpo di film che mi soddisfacesse.
Un episodio della sua vita che ha raccontato ma non hai utilizzato nella versione finale?
Nell’Inghilterra dei primi anni ’40, uno dei primi giorni di scuola, a 6/7 anni, s’è presentato con un kimono e la maestra fece chiamare la madre e gli disse che doveva venire con la divisa prevista. Era una giacca di un colore smorto ma con un interno rosso e delle rifiniture blu elettrico che subito Lindsay esibì.
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