EDMOND BUDINA


In Albania era un intellettuale, in Italia fa l’operaio. Una storia che già da sola è un film. Edmond Budina fa l’assemblatore di turbine idrauliche in una fabbrica di Bassano del Grappa. Lasciò Tirana insieme alla famiglia nel ’91: sua suocera, di nazionalità italiana, venne rimpatriata insieme ad altri connazionali. “A Ciampino ci accolse il ministro Boniver, quindi fummo ricevuti dal presidente Cossiga al Quirinale: due settimane in albergo e poi… arrangiatevi”.
Una storia come tante: sono almeno centomila gli albanesi che vivono in Italia. Ma Budina non è un tipo qualsiasi. Attore e regista di teatro, vicedirettore dell’Accademia d’arte drammatica di Tirana, attivo nel movimento di opposizione al regime comunista e punto di riferimento per molti studenti, si è ispirato a queste vicende per scrivere un film, Lettere al vento. Un uomo sulla cinquantina, Niko, decide di raggiungere suo figlio in Italia, a Torino. Si trova immerso in un’atmosfera da noir, storie di sequestri, di prostituzione, di raket. Ma sullo sfondo, e nei continui rimandi temporali della vicenda, c’è l’Albania comunista e postcomunista, con tutta l’incertezza e la violenza delle vicende politiche che l’hanno attraversata.
In più Lettere al vento è anche un caso produttivo. Italiano a tutti gli effetti, anche se scritto e diretto da un albanese e interpretato da un cast albanese, è prodotto da Donatella Palermo (con la partecipazione di EraFilm di Tirana) e realizzato con l’articolo 8 ma anche grazie alla Torino Piemonte Film Commission per un costo complessivo di 2 miliardi e mezzo. Set in Albania (per 3 settimane) e in Italia per altre cinque.

L’Italia è stata una delusione, come per molti profughi arrivati dai paesi ex comunisti?
Lettere al Vento Una delle tante delusioni. Ero comunista, poi ho contribuito a far cadere il regime comunista, sono stato tra i fondatori del partito democratico albanese. Credevamo nel pluralismo ma senza una preparazione psicologica prima che politica: ignorando tutto sulle classi sociali. Il comunismo rimane un’utopia perché ha bisogno di anime pure. Sotto il regime avevamo sofferto tanto che la gente baciava le lamiere del pullman che portava in giro per Tirana i “liberatori”. Abbiamo nutrito troppe illusioni e il simbolo di queste contraddizioni è il personaggio del mio film, Nico, un intellettuale costretto a vendere banane per strada…

Che bilancio fa dell’esperienza della fabbrica?
Mi ha arricchito e mi ha reso più equilibrato. So io cosa ho sofferto quando non avevo uno stipendio. Certo, in fabbrica diventa tangibile il concetto di sfruttamento: sei una macchina, vieni comunque sottostimato. Ma dopo il film penso che tornerò all’officina.

Sono passati oltre dieci anni dal ’91: come mai ci è voluto tanto per arrivare al film?
Poco dopo l’arrivo in Italia, nel ’92, ho scritto una sceneggiatura sulla vita di mia suocera, ma non potevo accedere a nessun tipo d finanziamenti non essendo cittadino italiano. Nel frattempo ho fatto tanti lavori, compreso il manovale alla scuola di Ermanno Olmi. Ho continuato a scrivere storie, sperando di trovare fondi in Albania, dove il cinema è letteralmente azzerato, grazie a un amico che dirige il dipartimento di cinema di Tirana. Ma è scoppiata la guerra del Kosovo… Alla fine la svolta è arrivata grazie a una giornalista del “Gazettino” che mi ha messo in contatto con Ennio De Dominicis. Lui ha girato un film sull’arrivo degli albanesi in Puglia e mi ha aiutato a chiedere l’articolo 8. Infine ho incontrato Donatella Palermo…

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06 Marzo 2002

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