BERLINO – Ariel è un economista di successo che lavora a New York. Assorbito dalla frenesia, è convinto di essersi lasciato alle spalle la comunità ebraica di Buenos Aires dove è cresciuto. Ma una inaspettata telefonata del padre, che gli chiede di tornare a dirigere la fondazione benefica fondata dalla famiglia, gli sconvolgerà la vita.
El Rey del Once – The Tenth Man è il titolo del nuovo film di Daniel Burman, che torna a Berlino – in Panorama Special – dopo El abrazo partido, Orso d’argento nel 2004. “A quei tempi non sapevo nemmeno cosa significasse essere un regista ed essere adulto – dice in conferenza – e forse nemmeno oggi. Ma almeno ci provo. Il tema della maternità è molto naturale, per questo trovo particolarmente interessante la paternità. A volte c’è la necessità di tornare indietro e riscoprire le proprie radici. E mi stimolava il tema del ‘fare del bene’ senza chiedere niente in cambio. Sono sempre un po’ sospettoso quando si parla di queste cose perché so che il male fa parte della natura umana. Allora mi chiedo cosa possa pensare un figlio il cui papà dedichi tempo e amore a una comunità di poveri togliendolo a lui. L’idea viene da un documentario che ho girato, Los 36 justos, per il quale mi sono trovato in una comunità di ebrei ortodossi. Ho incontrato Usher Barilka, il capo di questa fondazione, e ho imparato molte cose”.
Lo stesso Barilka è presente in conferenza: “Inizialmente non pensavo di dover creare questa comunità – dice – ma poi ho capito che era necessario perché tutte le altre si basavano su procedimenti burocratici. Mentre spesso questa gente ha bisogno di una parola di conforto e di una mano su una spalla”.
Recitano intensamente gli attori Alan Sabbagh (il protagonista) e Julieta Zylberberg (nei panni di una ragazza ortodossa che ha fatto voto di silenzio): “All’inizio pensavo fosse una cosa da pazzi – dice Zylberberg – ma poi ho capito che era una sfida rendere il personaggio interessante senza l’ausilio della voce. E quando ho rivisto il film mi sono resa conto che era come se parlasse”. “Ogni volta che dicevo una battuta – commenta Sabbagh – lei rispondeva con lo sguardo. Era comunque un dialogo, e io mi sentivo a mio agio. Non percepivo alcun vuoto”.
“Quel che si impara – conclude Burman – è la specificità dei bisogni di queste persone. Se hanno fame non basta dargli la prima cosa che capita, pasta o pizza. Se hanno bisogno di carne loro si sentono in diritto di lamentarsi. C’era un ragazzo che non poteva allacciarsi le scarpe per via di una malattia al cervello e aveva bisogno di scarpe di velcro. Fa parte dello spirito della Fondazione. Loro non devono essere in debito. Si possono lamentare. Non devono pagare tasse. Nessuno gli chiede perché sono in quelle condizioni. Né ci si aspetta necessariamente un ‘grazie’, proprio per farli sentire come chiunque altro. Questo è interessante. Io ho vissuto a Once buona parte della mia vita e ho tentato di ricostruirla, anche se le cose magari sono cambiate. Nessuno ha idea che esistano degli ebrei molto poveri in Argentina”.
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