CANNES – Ci vuole pazienza e dedizione per arrivare in fondo ai 179 minuti di Drive My Car, il film di Ryūsuke Hamaguchi presentato in Concorso al 74esimo Festival di Cannes, ma alla fine ci si ritrova con la soddisfazione di avere concluso un viaggio incredibilmente coerente, per quanto ostico. Il regista giapponese torna a Cannes dopo la buona accoglienza nel 2018 del suo precedente film Asako I & II e, questa volta, lo fa con un film tratto da un racconto breve di Haruki Murakami.
“In questo film, come nel racconto originale, – dichiara Ryūsuke Hamaguchi – ci sono le cose che conosco e amo di più: il teatro di prosa, la recitazione e le belle automobili. Mi piaceva l’idea di ambientare le scene chiave all’interno dell’abitacolo di una macchina, è un luogo perfetto per una conversazione intima in cui rivelare i segreti dei personaggi. C’è un’evoluzione nel rapporto tra i personaggi nella macchina: all’inizio c’è distacco, i personaggi sono seduti lontani e non si guardano, poi finalmente si guardano in faccia, infine, il protagonista si siede davanti, completando il processo”.
Drive My Car racconta la storia di Yusuke, un popolare attore e regista televisivo e teatrale che, due anni dopo la morte improvvisa della moglie, è chiamato a mettere in scena una versione dello Zio Vanja di Cechov per un festival internazionale di teatro. Durante i due mesi di prove, Yusuke è obbligato a far guidare la sua amata Saab 900 rossa da una giovane autista con la quale inizierà a costruire un rapporto di fiducia che gli permetterà di scavare nei misteri irrisolti legati al passato della sua defunta moglie.
Da questo spunto sembrerebbe tutto abbastanza semplice. Peccato che la linearità della trama sia continuamente interrotta da narrazioni secondarie: personaggi che raccontano storie o lunghi estratti dello Zio Vanja, messi in scena o semplicemente recitati in vari contesti. Questi elementi portano a un vistoso rallentamento narrativo, tanto che la morte della moglie che chiude ufficialmente il prologo (come sanciscono i titoli di testa), avviene dopo ben 40 minuti.
In tal senso, così si esprime il regista: “Quando faccio un film è importante risolvere tutti i temi che emergono. Il mio obiettivo è di portare i personaggi a casa. Quando ho capito che il film sarebbe durato tre ore mi sono scusato con tutti, ma sapevo che lasciarlo di questa lunghezza era la scelta giusta”.
Alla base di tutto il film c’è il tema della comunicazione, o meglio dell’incomunicabilità tra le persone. Lo spettacolo messo in scena all’interno del film diventa un pretesto metanarrativo, così come il fatto che il cast non parli tutto la stessa lingua. Per estremizzare questo concetto, nell’importante ruolo di Sonja viene addirittura castata un’attrice sordomuta, che reciterà sempre e soltanto usando la lingua dei segni.
“Sono molto soddisfatto del nostro casting internazionale, con attori giapponesi, coreani e filippini – afferma il regista – Credo che ogni attore o attrice combaci alla perfezione con il proprio ruolo. La comunicazione è un tema portante del film, per questo era importante che si parlassero più lingue, nel film ce ne sono cinque diverse. Sono convinto che le parole non siano necessarie per comunicare, anzi a volte sono un ostacolo, per questo abbiamo inserito anche la lingua dei segni nel film”.
Ad aggiungersi al ritmo quanto mai blando e alla compostezza tipica dei giapponesi, Hamaguchi dirige i suoi attori riducendo al minimo la loro espressività e rendendo il più fredde possibili le loro reazioni. Il suo è un metodo molto particolare, che viene raccontato in maniera ancora una volta metanarrativa nello spettacolo. Ne parla l’attrice cinese Sonia Yuan: “Quando ho scoperto che dovevamo recitare lo Zio Vanja, il mio insegnante di recitazione mi ha fatto studiare diverse versioni e messe in scena dello spettacolo. Ho lavorato molto, ma tutto è andato in frantumi quando ho iniziato a lavorare con il regista, perché era tutto diverso. Era la prima volta che mi trovavo a leggere un copione in maniera così fredda e ripetitiva. Ma il mio insegnante mi ha detto di fidarmi del regista, il suo metodo andava esplorato. Devo dire che la ripetitività aiuta a memorizzare. Quando possiedi il testo alla perfezione, inizi a pensare al copione diversamente e puoi abbandonarti in pieno alla recitazione e ai sentimenti”.
In Drive My Car, il regista ci porta lungo la sua lucida e glaciale visione dell’arte e delle persone, guidandoci con la pacatezza e la fluidità della sua Saab 900. Un film che ovviamente non è adatto a un ampio pubblico. Tanto che, in chiusura, Hamaguchi ringrazia “i festival come Cannes perché sono fondamentali per supportare il mio cinema indipendente. All’inizio della mia carriera non aveva un grande riscontro di pubblico, mi hanno permesso di diventare il regista che sono ora”.
Consacrati al festival i talenti cresciuti nell’incubatore torinese e premiati 3 film sviluppati dal TFL, laboratorio internazionale del Museo Nazionale del Cinema che dal 2008 ha raccolto 11 milioni di euro di fondi internazionali
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Il giapponese Drive my car di Ryûsuke Hamaguchi ha ottenuto sia il Premio della critica internazionale che quello della giuria ecumenica