“Dove va il western?” è il titolo dell’incontro che si è tenuto oggi alla Festa del Cinema di Roma, presso la sala Petrassi dell’Auditorium. In molte direzioni, verrebbe da dire immediatamente, vedendo chi c’era sul palco a parlarne: Francesca Comencini, che alla festa ha presentato Django, una serie tv western (qui l’articolo in cui ne parliamo), e Gabe Polsky, regista del film Butcher’s Crossing (qui il nostro pezzo sul film). È apparso evidente che il più cinematografico dei generi che ha avuto lunga e prolifica vita, ne ha ancora tanta davanti, eccome. A moderare l’incontro Alberto Crespi, che ha chiesto ai due registi innanzitutto come si fossero rapportati al genere.
“Django – ha spiegato Comencini – è nato quasi come una costola della serie tv Gomorra. Stavamo girando un episodio narrativamente molto diverso dagli altri: il primo, e unico, a non essere ambientato in mezzo alla città e al cemento, ma in spazi naturali. Decisi di ispirarmi proprio al western per realizzare quell’episodio. Quando i lo videro produttori, che avevano in progetto di realizzare Django, mi chiesero se fossi interessata: dissi immediatamente di sì. Tra le cose che mi hanno subito appassionato c’era la possibilità di raccontare un eroe in crisi con la propria mascolinità, servendomi di alcuni codici, quelli del western, che in un certo senso hanno dato un certo contributo nel definirla, quella mascolinità”.
“Quando ho pensato di fare questo film – ha invece risposto Polsky – il genere di riferimento è stato uno degli ultimi fattori sui quali ho riflettuto. Non ho realizzato Butcher’s Crossing perché volevo fare un western. Mi interessava piuttosto raccontare una storia sull’ambizione, su dove essa possa spingere l’essere umano. Anche un film come Il petroliere di P.T. Anderson parla di questo, ma non è un western propriamente detto. Sono consapevole che questo genere sia particolarmente amato e rappresenta molto per il cinema, ma guardare il film esclusivamente sotto questa lente può essere un limite: se gli spettatori che andranno in sala si aspettano di vedere un western classico, allora, credo, rimarranno delusi”.
Il genere, lo sappiamo, può essere uno strumento attraverso il quale stilizzare il presente e le sue istanze. Le tematiche che sembrano più immediate, quasi cronachistiche, possono essere astratte e restituite con una carica critica ancora maggiore. È quello che hanno fatto i grandi western della storia, e in particolar modo gli spaghetti western, almeno secondo Comencini, che ha ricordato come da ragazza guardasse questi film anche solo per puro piacere cinefilo, ma ci rintracciasse una forte critica sociale, un modo efficace di parlare di temi importanti, ma quasi archetipizzandoli, proprio come succede nelle favole.
Per lo stesso concetto, una storia ambientata nel 1874 come Butcher’s Crossing, può parlarci in modo estremamente diretto e personale. “Ho parlato con la vedova di John Edward Williams, che scrisse il romanzo da cui il film è tratto – ha aggiunto Polsky – e mi ha rivelato una cosa sorprendente, che non è stata mai riportata. Butcher’s Crossing è stato il libro più autobiografico di Williams, che aveva combattuto nella II Guerra Mondiale, e che ha trasferito quel trauma, quell’esperienza estremamente cruda in questo libro che parla di cacciatori di bisonti”.
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