MILANO – Carrisi e Coben. Donato e Harlan e la comune passione per le storie noir, che entrambi scrivono, da narratori letterari, di cui entrambi sono maestri riconosciuti e venduti a livello internazionale, dalle cui opere narrative sono tratte altrettante vicende filmiche o seriali, e dalla cui penna ciascuno ha messo al mondo anche una nuova opera. La casa delle luci il romanzo di Carrisi, The Stranger quello di Coben, ospite al Noir in Festival, insignito del Premio Raymond Chandler 2022.
Un incontro vis a vis tra due autori a cui appartiene uno stesso modo di raccontare le storie segrete: Carrisi s’è calato nel ruolo di giornalista, mosso naturalmente da passione e esperienza per il genere, nonché dal possesso del mestiere dello scrivere, e così ha intervistato Harlan Coben a Milano: “…se fino ad oggi avevo potuto stringere solo i suoi libri, oggi gli ho stretto anche la mano: Harlan Coben ha arricchito il mio modo di scrivere e strutturare le storie e ricordo quando un libraio, tanti anni fa, mi affidò un suo libro, io non avevo ancora pubblicato: lui in fondo scriveva già di me, di noi; ha la capacità incredibile di parlare di persone viventi, non confinate nella carta. Questa capacità è di pochissimi scrittori/registi, e Dio”.
Nelle righe che seguono, l’intervista che Donato Carrisi ha rivolto a Harlan Coben, uno scambio che – dietro il buio delle storie scritte, dentro cui entrambi ci portano per mano – fa scoprire anche una vis di spiccata ironia dell’autore americano.
DC: Harlan, tu parli di scomparse, più che di omicidi: dietro una scomparsa può nascondersi una qualsiasi cosa. Cosa significano per te?
HC: Anzitutto, sei una star anche tu nella scrittura! Per rispondere alla domanda: quando c’è un cadavere, c’è un cadavere e va risolto l’omicidio, ci sono persone distrutte. Una scomparsa, invece, lascia la speranza: può mettere le ali verso il futuro o può stringere il cuore in modo crudele ed è un modo, in scrittura, per aumentare la temperatura delle emozioni.
DC: Le tue storie sono architettate tra le mura domestiche, fondamentale è la casa: il luogo determina il sapore del racconto. Perché la scelta di fondo di ambientare le storie nelle case?
HC: Il motivo delle quattro mura è perché la famiglia è la cosa a cui tutti noi teniamo di più e ci permette di metterci in relazione alla storia. La famiglia è una relazione emotiva: ogni casa nasconde un mistero, crediamo di sapere cosa accada nella casa di fronte, è qui che entra in gioco l’umanità. Qualsiasi persona ha speranze e sogni e questo ci permette di empatizzare.
DC: Ogni famiglia ha anche un segreto.
HC: Sempre! Il segreto attiene profondamente alla condizione umana, quello di cui io e te scriviamo. Abbiamo la presunzione di pensare che gli altri non possano pensare cosa ci passi per la testa, ma non è così, perché siamo tutti complessi, quindi un segreto è lo spunto per cominciare a raccontare una storia.
DC: In Francia un giornalista mi disse: ‘Harlan Coben conosce il mio segreto’. Questa cosa mi ha inquietato tantissimo! La tua capacità è non inventare i segreti, ma prenderli nel loro cuore.
HC: Ho scritto 35 romanzi tutti con dei segreti, diventa sempre più difficile trovarne altri! Preferisco il piccolo segreto/errore/incidente che poi porta al disastro: a tutti noi può capitare di camminare sull’orlo di un burrone e cadere. E quindi potremmo anche riflettere su noi stessi, se in quella circostanza avremmo fatto come il cattivo.
DC: La cosa incredibile di Harlan Coben riguarda i personaggi: ti sembra di conoscerli ma poi cominciano a trasformarsi in maniera naturale e cambia anche il nostro atteggiamento di lettori verso di loro, pur rimanendogli vicino. È uno sguardo proprio di Harlan Coben: ti senti mai un intruso delle vicende famigliari che racconti?
HC: Un pochino ma non mi importa! Il nostro lavoro è impicciarsi delle cose degli altri, per esempio origliando. Una mia serie per Netflix mi è venuta dal racconto di un amico: ascoltando le cose degli altri a volte si rischia di scoprire un messaggio distruttivo, ma quando è uscita la serie gli ho rivelato fosse venuta da lui.
DC: Ero studente pendolare e dal finestrino del treno serale guardavo le finestre delle case e scoprivo pezzi di vita: ricordo una ragazza che scriveva, alle spalle parecchi libri. Un giorno il treno ha rallentato e ho scoperto che lei sollevasse lo sguardo e osservasse i passeggeri: io pensavo di essere uno spettatore invisibile e invece lei mi osservava. Succede anche quando scrivo, è come se i personaggi riuscissero a scavare in me, come io faccio in loro.
HC: Prima di tutto avrei controllato se ci fosse stato un mio libro nella sua libreria! È una grande verità questo fare avanti e indietro con i personaggi, è come se la parete tra noi venisse meno e loro mi parlassero.
DC Sei anche autore di serie di successo: la caratteristica di scrivere per immagini per me è del tutto naturale, per te come accade?
HC: Credo che l’azione di scrivere sia di collaborazione con il lettore. Noi descriviamo una casa ma ciascun lettore la vede in modo differente. Noi non facciamo altro, come lettori, di integrare quello che viene scritto. In tv è diverso: gli scrittori rischiano di essere dei palloni gonfiati quando raccontano dei propri riferimenti: dicono ‘Dumas, Dostoevskij’, ma non dicono di ispirarsi da quello che guardano in tv! A me ha influenzato Capitan America!
DC: Chi legge e guarda poi le serie è sempre d’accordo con le tue trasposizioni?
HC: La mia filosofia è che l’adattamento per lo schermo non deve… essere identico al libro, perché è un mezzo visivo. Dobbiamo accettare la diversità dei mezzi, anche se la storia rimane la stessa.
DC: Non deleghi spesso l’adattamento delle storie, e ti assumi il rischio. Io sono spaventato dalle trasposizioni perché da lettore ho trovato gravissimi tradimenti. Per questo ho l’esigenza del controllo del processo creativo, per la paura del tradimento del libro.
HC: The Stranger si svolge nel New Jersey e poi è stato adattato a Londra e Barcellona: l’importante è mantenere integro il cuore della storia.
DC Qual è il tuo rapporto con l’algoritmo delle piattaforme? Netflix mi sconsiglia la visione di un mio film, dice che sono compatibile al 28%.
HC: Le piattaforme non mi parlano molto di queste cose, mi dicono dell’odiens, della durata della visione. Netflix cerca di capire quale sia l’immagine/poster più accattivante per colpire lo spettatore. 23 anni fa avevo scritto Non dirlo a nessuno ed ero andato a Hollywood: tiravano fuori idee per svilupparlo dicendo che fossi un genio, ma poi non li ho mai più sentiti e un mio editore saggio mi disse di ricordare che avevano distrutto Chandler…Poi pian piano mi sono ri-avvicinato al mondo dello schermo: non mi interessa se non vogliono fare una serie da me e… non c’è niente di più sexy per Hollywood di essere mandato a fanculo! E mi sento un privilegiato a poter dire no.
DC: Tu sei anche l’alibi di un personaggio in un libro di Stephen King.
HC: Un giorno mi ha telefonato e chiesto se potesse usarmi come personaggio: ‘assolutamente sì!’. Prima che uscisse il libro ha voluto mandarmelo e la prima cosa che ho fatto è stata cercare il mio nome: c’era 64 volte! Mi ha lusingato moltissimo! Era The Outsider e ne hanno fatto una serie, togliendo… il mio personaggio! Nel libro la cosa curiosa è una citazione di una conversazione con Harlan Coben in una libreria… usata come alibi… proprio come sta accadendo adesso, facciamo attenzione…
DC: Da scrittore, come affronti il giorno prima dell’uscita di un tuo libro?
HC: Ci sono un paio di cose: non sono nervoso perché penso di aver fatto tutto il possibile; ero nervoso 30 libri fa. Un libro non diventa un libro finché qualcuno non lo legge, mi entusiasma come viene accolto nel mondo.
DC: Io ho una recensione incorniciata dietro la scrivania: una stroncatura clamorosa del mio primo romanzo e il giorno prima di ogni uscita la volto dall’altra parte.
HC: Ho un ricordo del primo libro, Play Dead, una recensione del ‘New York Times’: ‘è un peccato che questo libro sia stato scritto così male’, diceva. Me la ricordo dopo 30 anni.
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