TORINO. Fabio ha 14 anni viene da una valle bergamasca dove, quando torna a casa da Milano, aiuta i suoi genitori contadini nella cura degli animali e delle piante. Ma il suo sogno è quello di diventare ballerino di danza classica perciò frequenta l’Accademia Teatro alla Scala. Ed è con lui che entriamo in questa luogo di eccellenza artistica che raramente è stato raccontato dal cinema.
Quella di Fabio è infatti una delle diverse storie personali che compongono Fuoriscena, in concorso a Italiana.doc e distribuito da Luce Cinecittà, il primo lungometraggio scritto e diretto da Massimo Donati e Alessandro Leone, che mostra un intero anno dietro le quinte degli allievi della scuola del teatro più famoso del mondo.
Il documentario, autoprodotto dagli autori con la Ester Produzioni insieme a GA&A Productions, è un racconto corale innanzitutto, con protagonisti alcuni aspiranti cantanti lirici, ballerini e scenografi alla costante ricerca della perfezione da portare in scena. Oltre alle storie private e ai percorsi collettivi di studio, in Fuoriscena c’è poi la bellezza della macchina dello spettacolo, due dimensioni che gli autori hanno sapientemente intrecciato.
“Fuoriscena riesce a restituire perfettamente il clima che respirano ogni giorno, fra le nostre aule, gli allievi dell’Accademia; l’impegno quotidiano, la fatica, ma anche la gioia di trovarsi sul palcoscenico accanto a interpreti e maestri sommi” ha commentato Luisa Vinci, direttore generale di Accademia Teatro alla Scala. L’approdo infatti di un impegno carico di sacrifici e gioie sono gli spettacoli in cartellone: lo Schiaccianoci e Nineteen Mantras, gli spettacoli Istituzionali e i concerti, e per finire Don Pasquale e Raymonda nel tempio della Scala.
Come è nata l’idea di Fuoriscena?
DONATI. Innanzitutto non è un film commissionato. Prima del soggetto c’era l’idea di che genere di film costruire, quella di un documentario ‘a immersione’ che raccontasse, attraverso le azioni e le parole dei protagonisti, un mondo segreto e che avesse elementi narrativi interni ed estetici forti. Mi sono poi imbattuto con l’Accademia Teatro alla Scala di Milano, una realtà enorme, dirimpettaia del Teatro alla Scala, sconosciuta a me e in parte alla stessa città. Questa contraddizione ci ha spinto ancora di più ad affrontare il progetto.
Non deve essere stato facile entrare in questo luogo di eccellenza artistica?
LEONE. Benché sconsigliati da tanti che ritenevano irraggiungibile quel mondo, ci siamo presentati, senza alcun aggancio o referenza, alla responsabile della comunicazione, Paola Bisi, e la prima risposta è stata un ‘No’ cortese e fermo. Ma nel corso del successivo incontro abbiamo presentato il progetto che è piaciuto ed è proprio grazie alla collaborazione di Paola Bisi che la nostra idea ha potuto concretizzarsi.
Come l’avete convinta?
DONATI. Le abbiamo portato degli esempi di registi che hanno lavorato con la modalità della ‘immersione’ come Essere e avere di Nicolas Philibert o La danse di Frederick Wiseman. Il modello più vicino al nostro lavoro è stato il primo perché abbiamo cercato nel film delle narrazioni e l’avvicinamento umano ai personaggi.
LEONE. E ciò attraverso l’osservazione e l’immersione in un universo che viene scoperto gradualmente. E la narrazione non è costruita a tavolino, ma dalla registrazione di quel che accade è possibile in fase di montaggio costruire dei micro percorsi in un lavoro corale.
Fondamentale è stato il metodo di lavoro, quale?
DONATI. Tre mesi di osservazione, nell’autunno e inizio inverno; le riprese sono cominciate a dicembre, con un breve prologo a settembre girando le audizioni, perché l’intenzione era di coprire un anno. Nel periodo di osservazione abbiamo incontrato circa 170 allievi, tra ballerini (dagli 11 ai 18 anni), cantanti lirici, scenografi e attrezzisti, per conoscere le loro storie e poi identificare i protagonisti principali della nostra narrazione corale. Perché l’annualità che avremmo raccontato doveva avere comunque dei fili conduttori anche se esili.
LEONE. L’idea è quella di descrivere un mondo che sinergicamente lavora per arrivare sul palcoscenico, un percorso formativo che porta alla performance finale. Un tragitto che definisce una costante messa alla prova di sé nella ricerca della perfezione professionale ed estetica. E tutto avviene nel cuore di Milano, in un luogo che si rivela di grande bellezza, che non è fine a se stessa ma ha a che fare con la rappresentazione artistica del mondo.
Il film non utilizza interviste e voce fuori campo, come mai?
DONATI. Già questa scelta era presente nel progetto iniziale che era quella di realizzare non un documentario didattico o giornalistico, ma un film centrato su una narrazione e un’estetica.No allora all’impiego della camera a mano, sì invece alla ricerca di una composizione dell’inquadratura. Riprese con luce naturale avendo una troupe leggera e non volendo intervenire nella costruzione delle situazioni: ci siamo avvicinati in punta di piedi, per salvaguardare il senso di realtà.
Dunque la macchina da presa è stato un occhio discreto?
LEONE. C’è stata la necessità, prima dei ciak, di stabilire quella relazione con i soggetti del film per scomparire poi durante le riprese e per gli allievi siamo diventati una sorta di appendice.
Avete avuto così la pazienza di attendere cose nuove e inaspettate?
DONATI. Sì, come è avvenuto con le scene delle prove di ballo dei ragazzi sul ballatoio del convitto e poi con i gavettoni degli allievi a fine anno scolastico.
Avete anche limitato la presenza in scena dei professori?
LEONE. Il nostro focus è costituito dalle vite degli studenti, perché sono loro che devono realizzare il sogno. Del resto basta una singola inquadratura perché venga fuori il carisma e l’umanità di alcuni docenti.
Quante ore avete girato?
DONATI. 140 con due camere digitali che, nel caso degli spettacoli, sono diventate quattro. Decisivo è stato l’intervento del montatore, che tra l’altro è stato importante quando ha preparato un pre montato di un quarto d’ora da mostrare all’Accademia che, peraltro mai intervenuta nella lavorazione, ci ha chiesto di vedere il girato di tre mesi. Ora hanno visto il prodotto finale e sono soddisfatti perché per la prima volta viene raccontato in modo autentico e corretto il loro lavoro.
E ora quale sarà la vita del vostro documentario?
DONATI. Puntiamo a un percorso festivaliero, soprattutto all’estero, e a una programmazione televisiva.
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