Cinque rappresentanti dei distributori internazionali italiani – per la maggioranza donne, il che vale per l’intero settore – si sono incontrati al Maxxi per l’ottavo dei Dialoghi sul futuro del cinema italiano organizzati nell’ambito della Festa del Cinema, dedicato a un ruolo del cinema poco conosciuto dal grande pubblico, ma che ha un compito fondamentale: garantire la circolazione dei film nazionali all’estero. Paola Corvino (Intramovies), Monica Ciarri (Minerva Pictures), Gaetano Maiorino (True Colours), Catia Rossi (Vision Distribution) e Michael Weber (The Match Factory), interrogati da Piera Detassis, sono partiti da un dato confortante, ma non esaustivo: i film italiani distribuiti all’estero sono passati da 52 a 118 dal 2017 a oggi. Più che raddoppiati, dunque, ma un’analisi più approfondita non è altrettanto entusiasmante.
Paola Corvino, di Intramovies – che, premette, fa questo lavoro da decenni – sottolinea che “se i numeri dicono che i film esportati sono aumentati, questo accade perché sono aumentate le co-produzioni, anche minoritarie, e in questa quota rientrano anche film che per ragioni naturali devono essere proiettati anche nei paesi di co-produzione. Ma per i film di nuova produzione italiana, il tema del collocamento internazionale non è così semplice”. Catia Rossi, in forze a Vision Distribution, aggiunge: “Con il sito Filmitalia ho fatto una microanalisi e ho visto quanti film, tra quelli pronti e quelli usciti in sala, avessero un distributore internazionale, il risultato è che più del 40% non ce l’ha, e dobbiamo tenerne conto. C’è una quota di cinema italiano che non viaggia all’estero e le ragioni stanno nel fatto che i titoli viaggiano soprattutto se hanno una carriera festivaliera alle spalle e un regista riconosciuto. Il nostro star system non è forte al punto che i film si vendono solo grazie agli attori, come succede in Francia”. Monica Ciarri di Minerva Pictures punta il dito contro la carenza di film di genere: “Da noi se ne fanno pochi, ma sono quelli che viaggiano con più facilità, perché il genere produce un linguaggio capito da tutti i paesi, mentre per le commedie e i drammi bisogna essere local”. Maiorino, per True Colours, puntualizza che “si fa fatica soprattutto con i film indipendenti. Forse, raccogliendo la provocazione di Barbera, non c’è bisogno di farli tutti, questi film così piccoli. Non che si debba frenare vita creativa degli autori, ma non è necessario fare film in fretta, farne tanti e poco curati nella scrittura”. Michael Weber di Match Factory invita ad allargare la prospettiva: “Il mercato non può assorbire questa quantità di film prodotti. Il cinema italiano, comunque, sta messo molto meglio rispetto ad altri paesi, riscuote più successi nei festival, ha varie generazioni di registi al picco della qualità, grandi maestri come Bellocchio e giovanissimi autori poco più che ventenni che vanno ai festival e vengono premiati”.
Tutti sono d’accordo su una cosa: “Stanno scomparendo le possibilità di esportazione sul prodotto medio, quello con un budget sui tre milioni. Funzionano i film di nicchia o, al contrario, le grandi produzioni”, dice Rossi, e Corvino precisa: “Una volta in Italia esistevano quattro grandi produttori che mettevano insieme tanti nuovi registi e dicevano al distributore estero: vuoi il Gattopardo? Ti prendi anche Attanasio cavallo vanesio. Oggi ci tantissimi produttori eccellenti ma non ci sono concentrazioni e quanti film possiamo definire locomotiva? Facciamo molta più fatica. Per me è terribile che io riesca a piazzare al cinema un film di library del 1960 e non vendere un film del 2020”.
A raccogliere consensi tra tutti sono anche altre due teorie: se dieci anni fa si arrivavano a contare una decina di festival rilevanti per le vendite estere, oggi ce ne sono appena tre o quattro (Venezia, Berlino, Cannes e Toronto, e, per alcuni film, Sundance), e la necessità per il sales agent estero di avvicinarsi all’opera già in fase di scrittura: “Riguarda noi decidere quale deve essere la strategia festivaliera di un film, ma il difetto dei giovani produttori è che si rivolgono a noi troppo tardi. Il nostro occhio, invece, può aggiungere qualcosa anche in sede di scrittura”.
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