Unico italiano in concorso alla Berlinale 2023, Disco Boy di Giacomo Abbruzzese è co-prodotto per l’Italia da Dugong Films, società di produzione arthouse fondata nel 2010 da Marco Alessi “per sviluppare progetti di autori che raccontano il contemporaneo con sguardo inedito, portando avanti una ricerca creativa che supera i confini tra i generi”, come si legge sul suo sito. Nel 2018 Dugong è stata selezionata come “Producer on the move” a Cannes e in questi anni ha dato vita a progetti importanti come La strada dei Samouni di Stefano Savona e Atlantide di Yuri Ancarani. Ora, appunto, arriva la ribalta del concorso tedesco per un’opera prima co-prodotta con Francia, Belgio e Polonia con un budget di 4 milioni di euro.
Alessi, come è nato il progetto di Disco boy?
Lavoriamo con Giacomo Abbruzzese ormai da dieci anni e abbiamo prodotto la maggior parte dei suoi cortometraggi e documentari. I nostri rapporti con i registi non riguardano mai un singolo progetto, ma un percorso da fare insieme. Nel 2017 abbiamo iniziato a parlare con lui di Disco Boy. Ci raccontò di un legionario che si ritrovava in Africa “in rappresentanza” dell’Occidente e ci colpì molto. Conoscendo Giacomo, sapevo che aveva la giusta voglia, conoscenza e capacità per raccontare bene la storia. In seguito c’è stato un lungo percorso di ricerca in cui è stato coinvolto anche Nicolai Lilin (Educazione siberiana, NdR), soprattutto per capire il fenomeno del flusso migratorio che arrivava anche in Francia per poi iscriversi alla legione straniera.
Come avete montato il progetto produttivo?
Siamo riusciti a chiudere il cerchio della produzione quando è intervenuta la produzione francese Films Grand Huit – con cui avevamo già realizzato il corto Gli anni di Sara Fgaier che ha vinto agli Efa – che è riuscita dove altri produttori francesi avevano fallito: hanno fatto l’en plein di finanziamenti e partner, pur trattandosi formalmente di un’opera prima (di finzione). Il film è stato girato in Africa, Francia e Polonia ed è stata un’operazione di una certa complessità di gestazione, dunque, ma sicuramente riuscita anche grazie alla presenza di Franz Rogowski come protagonista. La sua scelta è stata molto ragionata e siamo felici di averla fatta: è stato generoso ed entusiasta nell’affrontare questo racconto. Quando poi abbiamo visto le immagini di Disco boy, siamo rimasti molto colpiti dall’interpretazione e dalla regia: è stato uno dei pochissimi casi nella mia lunga esperienza in cui mi sono detto “questo è un film che deve andare a un festival di serie A”. Credo tra l’altro che non sia solo un film da festival, ma che abbia delle attrattive, oltre che per gli amanti del cinema d’autore, anche per il pubblico giovanile, grazie alle musiche di Vitalic. Il fatto che Lucky Red ne abbia preso la distribuzione ci conforta, infine, sul posizionamento ampio che potrà avere.
Nel 2018 Dugong è stata Producer on the move a Cannes, in questi pochi anni è cambiato il mondo, non solo del cinema. Per una produzione di ricerca come la vostra le cose sono diventate più semplici o complicate?
Non so se parlare di difficoltà o facilità. Di sicuro sono cambiati i player del mercato, ci troviamo in un panorama molto diverso da cinque anni fa, momento in cui comunque si poteva intuire dove saremmo arrivati. Di positivo c’è che il sistema festival si è rafforzato. Sono convinto che la fruizione-evento tipica dei festival rappresenti un nuovo segnale di riappropriazione degli spazi pubblici. Penso al fatto che il Cinema Troisi a Roma, grazie alla politica degli eventi, sia diventato una delle prime sale in Italia. È cambiato l’approccio dello spettatore medio, che non si aspetta più lunghe teniture, ma vuole incontrare il cast in sala. Di negativo c’è che il sistema festival si è rafforzato a discapito della distribuzione tradizionale. Noi facciamo film ibridi, arthouse, che qualcuno definisce addirittura extreme arthouse, perciò non miriamo a un pubblico generalista, ma c’è stato un cambio di prospettiva: c’è una consapevolezza differente e si può guardare a pubblici diversi. C’è quello delle piattaforme, quello del cinema d’autore e quello del cinema commerciale: ognuno ha il suo spazio.
Che ne pensa della polemica sull’iper-produzione di film italiani?
La vera ricerca è basata sull’errore, perciò è giusto che si producano anche 2.000 film, ma solo se sono davvero animati da uno spirito di ricerca e formazione e non da logiche di controllo del mercato. Il tax credit ha rappresentato un grandissimo cambio di passo nella produzione italiana, che ha influito anche sulle relazioni internazionali. Noi facciamo solo co-produzioni con l’estero perché ci sono stati dati i mezzi per farlo, e i risultati si vedono. Ad esempio il 10 febbraio, dopo la presentazione in anteprima al Trieste Film Festival, uscirà in Italia Il boemo: pur essendo girato in Italia e parlato in italiano è una produzione italiana minoritaria, ma grazie ai tool creati dal Ministero negli ultimi anni è stato il film selezionato dalla Repubblica Ceca per la corsa agli Oscar. Oggi ci è molto più chiaro che in passato che ognuno di noi ha il suo spazio, che può stare al confine con altri. Un film come Atlantide di Yuri Ancarani, ad esempio, ha girato in 150 Paesi facendo 150 festival, ma dal punto di vista della classica distribuzione theatrical ha fatto risultati piccoli, ed era ciò che ci aspettavamo. Ma il 31 gennaio Atlantide sarà al centro di una mostra a Bologna, e tutto ciò è il frutto di un lavoro di ricerca che porta anche a un nuovo tipo di fruizione.
Che progetti avete in arrivo?
C’è Italy First di Luca Vendruscolo, attualmente in fase di sviluppo, con Simona Nobile che sta scrivendo la sceneggiatura con il regista, e a ottobre sono finite le riprese di Madame Luna di Daniel Espinosa, regista di tripla nazionalità cileno-svedese-statunitense, che ha diretto Morbius. La storia ha tema migratorio e racconta di una trafficante di vite che a sua volta viene ‘trafficata’.
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