CANNES – E’ Wara No Tate (Shield of Straw) di Takashi Miike il film che apre le proiezioni stampa oggi sulla Croisette. L’instancabile regista giapponese – era al Festival di Roma neanche sei mesi fa con Aku no Kyoten – porta in concorso un action-thriller spettacolare e profondo che, pur incentrandosi su temi fortemente legati alla sua cultura, strizza agevolmente l’occhio ai migliori blockbuster americani. Basato su un romanzo di Kazuhiro Kiuchi, il film prende le mosse da uno spunto che, già da sé, dà adito a riflessioni. Un vecchio miliardario pone una taglia di una cifra spropositata su un serial-killer che ha violentato e ucciso barbaramente la sua nipotina. L’assassino, diventato bersaglio per milioni di persone, si reca spontaneamente alla polizia. Quattro piedipiatti sono incaricati di portarlo sano e salvo a Tokyo, rischiando la loro stessa vita. Il viaggio diventa una caccia infernale, con una miriade di potenziali assassini a ogni angolo. Non solo: gli agenti dovranno fare i conti con la loro stessa moralità e con il senso del dovere che li pervade, dato che ognuno di loro avrebbe ottimi motivi per fare giustizia, giustificando facilmente agli occhi di tutti l’incasso della taglia.
“Il senso del dovere – dice il regista – è un tema importante del film, ma non quello principale. Abbiamo a che fare con personaggi a tutto tondo. E’ una storia di criminali e poliziotti, ma al contempo anche e soprattutto un racconto di persone. Hanno tutti una famiglia, dei genitori, dei figli. Anche l’assassino. C’è l’amore e c’è l’odio. Quando si approccia ai personaggi in maniera realistica vengono fuori tutti i temi che sono semplicemente legati all’essere umano”.
La pellicola è insolitamente movimentata per gli standard del cinema giapponese – si segnala, in particolare, una sequenza al cardiopalma all’interno di un treno – e sarebbe perfetta per il mercato occidentale. Anche se come sappiamo, Hollywood tende a produrre remake più che a distribuire i film originali nelle sale statunitensi: “Abbiamo perso l’abitudine a girare film d’azione – continua Miike – ma non è un problema del pubblico, che invece li apprezza. Dal canto mio io faccio i film che ho voglia di fare, non sto a pensare se piaceranno a un certo tipo di pubblico piuttosto che a un altro. Sono registi e produttori che non hanno fiducia in questo genere, il che ha come risultato una progressiva perdita della ‘mano’ quando si tratta di usare stuntman e montaggi veloci. Tanto che io per alcune scene mi sono dovuto spostare a Taiwan. In Giappone non me lo permettevano, per questioni di sicurezza. Sapete che lì si mangia molto bene – scherza poi – e per questo mi trovate un po’ ingrassato. Ma confido nella capacità dei fotografi di ‘photoshopparmi’ a dovere”.
Rispetto al libro, ci sono delle differenze. Il personaggio interpretato dalla grintosa Nanako Matsushima, in origine era un uomo: “Hanno cambiato appositamente la sceneggiatura dopo che ho confermato la mia partecipazione – racconta l’attrice – e questo mi ha onorata. D’altro canto sono io stessa una madre e quindi mi sono identificata molto”. “Per il resto – aggiunge il regista – i temi principali sono gli stessi che c’erano nel libro, non c’è poi tanta differenza. Il mio cinema si evolve perché si evolve ciò che ho attorno. In questo caso avevo già una trama pronta per cui non mi sono sforzato di risultare particolarmente originale. Ho approcciato il soggetto in maniera ‘classica’, diciamo. Anche semplice, se vogliamo”.
L’ultima Palma giapponese è stata per The ballad of Narayama di Shohei Imamura, nel 1983, ed è innegabile che, difficilmente, siano film di genere a conquistare l’ambito premio: “Certo la Palma non mi dispiacerebbe – conclude Miike – ma a chi dispiacerebbe? Per ora mi accontento di sapere che un film un po’ diverso dal solito sia stato inserito nella selezione ufficiale. Non mi sento granché influenzato dal cinema di Imamura, ma da lui ho imparato proprio questo: non bisogna sforzarsi di essere originali, è un elemento che viene naturalmente fuori cercando semplicemente di fare film nella maniera migliore possibile con gli strumenti che si hanno a disposizione. E’ incredibile che siano passati 30 anni, il tempo è crudele. Ma è proprio la sua crudeltà che ci spinge a fare più film possibile, e nella maniera migliore possibile”.
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