Dino De Laurentiis


L’Italia, grazie a lui, è stata ufficialmente il primo paese a vincere un premio Oscar 2001. La notte del 25 marzo, stanotte, l’Academy ha infatti deciso di assegnare al produttore Dino De Laurentiis il prestigioso Irving G. Thalberg Memorial Award, ambito riconoscimento che dal 1937 è andato a personaggi del calibro di Cecil B. De Mille, Alfred Hitchcock, Ingmar Bergman.
Questa volta, ed è la prima, l’onore è spettato a un italiano tra i più noti e accreditati della scena internazionale. Già vincitore di due statuette per il miglior film straniero guadagnate, consecutivamente, nel 1957 e nel 1958, da La strada e Le notti di Cabiria, entrambi diretti da Federico Fellini.
Per commentare questi Oscar chi meglio di lui, quindi, che ha prodotto oltre un centinaio di film (clicca qui per saperne di più) e dal 1973 vive e lavora negli Stati Uniti, consolidando la sua fama fino al recentissimo Hannibal?

Grazie all’Irving Thalberg Award l’Italia è il primo paese premiato dall’Academy nel 2001. Purtroppo però le altre nomination non si sono trasformate in statuette…
A mio parere le nomination italiane rappresentano già una vittoria. Non bisogna fare confusione con il voto dei membri dell’Academy. Per loro non fa molta differenza il fatto che Morricone non abbia ancora mai ricevuto un Oscar. Le nomination di Malena, la sua presenza nella cinquina di due categorie, sono già un discreto riconoscimento. Quello che merita. Maggiori chance aveva la candidatura di Pietro Scalia. Io ho votato per lui. E’ una mia “vecchia” conoscenza e lo considero il miglior montatore della scena americana e non.

Il nostro cinema gode di buona fama all’estero?
Per nulla. Fatta eccezione per alcuni prodotti come Il postino, La vita è bella. Ma sono rare eccezioni. Ogni paio d’anni arriva in America qualche film italiano d’esportazione. Si tratta prevalentemente di film d’autore. I vincoli della Legge Corona hanno praticamente prodotto il vuoto. Hanno tolto ai produttori libertà creativa e imprenditoriale. In Italia non c’è abbondanza di prodotti degni di fama internazionale. I maggiori proventi commerciali, in tutto il mondo, arrivano dalla vendita dei diritti televisivi, soprattutto dal mercato delle videocassette che non prevede (spese per) sottotitoli. Questo significa, per esempio, smetterla di girare film in lingua italiana e optare per l’inglese.

Ha più volte sottolineato la fragilità (o l’ottusità) della politica d’investimento nel cinema nel nostro Paese. Crede sia più utile la logica del libero mercato?
E’ ora soprattutto di piantarla di parlare di cinema italiano, francese, tedesco e così via. Se è vero che esiste l’Europa unita e una moneta unica sarebbe molto più utile iniziare a pensare a una politica comune per il cinema europeo. E siamo già in ritardo, visto che viviamo nel 2001. I mercati europei contano un pubblico di 450 milioni. Un confronto rilevante con i 350 degli Stati Uniti. I numeri, da soli, ci danno già ragione. Basta con leggi protezionistiche di stampo provinciale. In Italia, ripeto, siamo fermi, grazie alla legge Corona, al 1970. Se lei ben ricorda, era preceduta dalla legge Andreotti, che resta a mio avviso ancora la migliore prodotta per il nostro cinema. Permettendo di accompagnare il 50% del capitale italiano con un altro 50% di capitale estero.

Esiste secondo lei una ricetta per fare film esportabili in tutto il mondo?
E’ la stessa ricetta che anima il cinema americano. Prima di tutto puntare su belle storie, universali. Quelle condivisibili da più spettatori possibile. Esattamente quelle che facevamo anche noi, qualche anno fa. Sto parlando di film come Il gattopardo, La Bibbia, Barabba, I due nemici. Il cinema italiano deve rappresentare l’Italia nel mondo, questo significa esportare valuta e incrementare il turismo.
Perché secondo lei tutti sogniamo di venire in America, se non grazie al cinema americano? Il successo dell’industria cinematografica diventa il miglior veicolo promozionale per ogni paese che voglia dirsi competitivo. Il segreto? E molto semplice. Una bella storia e un buon regista. Binomio che attira automaticamente le star e il resto.

Non crede che il set a Cinecittà di Martin Scorsese possa avere qualche ritorno commerciale e produttivo anche per il nostro cinema?
Non c’entra niente. Quello di Scorsese resta cinema americano. Porta sicuramente soldi ai nostri tecnici, che sono, e restano, i migliori del mondo. Ma sponsorizza l’industria di Hollywood.

Tornerà a girare in Italia?
Ho in mente due film, in fase di realizzazione, che penso di girare in Italia. Ci sto lavorando da due anni. Stiamo ultimando la sceneggiatura.

Dedicare tante attenzioni alla stesura dello script significa anche investire molte risorse in questa fase?
Ha ragione. Ma credo molto nella messa a punto in questa fase. E lì che si affinano le buone storie. Due anni di lavoro a volte sono il minimo.

Può dirci con chi prevede di girare?
L’ultima legione è il primo progetto e sarà diretto da Carlo Carlei, il regista di Fluke con Matthew Modine e di Padre Pio. Il secondo si intitola La furia, sarà girato a Milano e dietro la cinepresa prevedo la presenza di Andrei Konchalovskij.

Li considera film italiani o americani?
Li considero prodotti di un uomo che lavora con passione e umiltà per il cinema. Agli altri, semmai, il compito di giudicare.

(si ringrazia per la collaborazione Gianluca Nardulli)

autore
23 Marzo 2001

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