Due film italiani, due storie di marginalità al Torino Film Festival. Diego Olivares come Valerio Jalongo con Sulla mia pelle, ha ripreso le vicende di ragazzi dal passato e presente difficile. I Cinghiali di Portici è un’opera prima che segue da vicino, ma con ostentato disincanto, una comunità che ha come obiettivo il recupero di minori a rischio. A dirigere questa struttura è Ciro (Ninni Bruschetta, uno dei pochi attori professionisti nel cast), che convince i ragazzi a giocare a rugby.
Due i percorsi narrativi che si rimandano vicendevolmente. Da un lato, vi sono le storie quotidiane di ragazzi che senza farsi troppe illusioni cercano di risalire la china. Dall’altro, c’è la vicenda sportiva. Qui sembra di assistere al classico film di genere: una squadra improbabile si mette insieme e inizia a vincere. Il fatto è che questo potenziale film di genere non si completa come da tradizione con una vittoria o una sconfitta, alla fine nessuno urlerà “Adriana!”. Anche l’attività sportiva è qualcosa che passa, un frammento di realtà che molto probabilmente verrà dimenticato per sempre.
Senza consegnarci alcuna morale, I Cinghiali di Portici suggerisce a voce bassa che il nostro destino è legato a uno strano rimbalzo, esattamente come accade alla palla ovale del rugby.
Chi sono gli attori del tuo film?
E’ un cast composito. Ci sono attori come Ninni Bruschetta che hanno alle spalle varie esperienze teatrali e cinematografiche. Poi c’è un gruppo di ragazzi del luogo che non hanno mai recitato, infine sono presenti alcuni giovani giocatori di rugby. Devo ringraziare Ninni perché ha saputo eliminare ogni distanza. Può capitare che si crei un distacco tra attori professionisti e non.
E’ stato complicato tenere insieme personalità così diverse?
Dopo aver selezionato gli attori, li ho portati tutti in una comunità – Il Pioppo di Somma Vesuviana – perché era necessaria una preparazione che alla fine è durata tre mesi. Inizialmente non comunicavano tra loro, ognuno convinto di essere diverso, di non avere a che fare con le storie dell’altro. Poi hanno capito che nessuno poteva considerarsi immune da un destino avverso. Hanno cominciato a parlarsi e condividere il proprio vissuto. Insomma si è formata una vera e propria squadra molto affiatata.
Perché il rugby?
La scelta è legata a una vicenda privata. Un mio amico che giocava a rugby ha passato un lungo periodo in una comunità di recupero. Dopo un anno nel quale non poteva comunicare con nessuno, ha cominciato a scrivermi delle lettere. I suoi scritti costituiscono il nucleo centrale dei discorsi della voce fuori campo.
“I Cinghiali di Portici” sembra seguire il classico percorso del film di genere sportivo, ma poi…
Poi diventa altro. Io amo i film di genere ma al tempo stesso credo che non riescano a trasmettere contenuti reali. Per me era importante mostrare un frammento di vita vissuta, un momento transitorio nell’esistenza di ragazzi che vengono abbandonati a se stessi e dimenticati. Perché avremmo dovuto vedere la loro storia sportiva fino alla fine? Che senso ha sapere se hanno vinto o perso? Per capire l’incompiutezza del film bisogna prestare attenzione alla voce fuori campo, disillusa e poco incline alla speranza. I protagonisti sono arrabbiati ma non urlano, placcano gli avversari, danno calci alla palla, ma poi prenderanno un’altra strada che a noi resterà ignota come il risultato dell’ultima partita.
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