DiCaprio, il lupo della finanza azzanna l’Oscar

Quinta collaborazione tra Leonardo DiCaprio e Martin Scorsese, The Wolf of Wall Street, coprodotto anche dai due con non poche difficoltà, arriva in sala il 23 gennaio in 400 copie con 01


Quinta collaborazione tra Leonardo DiCaprio e Martin Scorsese, una partnership sempre più affinata ed esplosiva, The Wolf of Wall Street, anche coprodotto anche dai due con non poche difficoltà, arriva in sala il 23 gennaio in 400 copie con 01. Ha appena avuto cinque nomination all’Oscar e questa potrebbe essere la volta buona per l’attore, che non è ancora riuscito a portare a casa la statuetta già sfiorata, tra l’altro, con The Aviator. Ma certo, i giurati dell’Academy dovranno superare una dose di pruderie: il film è stato accusato da più parti di aderire fin troppo al mondo dissoluto che descrive (in Estremo Oriente la pellicola è stata addirittura bandita, in Nepal e Malesia è vietata, in India sottoposta a tagli), tanto che interprete e regista si sono affrettati ad affidare a qualche intervista mirata il concetto che raccontare la vita di Jordan Belfort non significa amarla né condividerla.

Si stenta a credergli, però. Perché l’adesione di The Wolf of Wall Street alla materia che racconta in tre ore nette di sesso, droga e rock’n’roll è pressoché totale. Più vicino a Paura e delirio a Las Vegas di Terry Gilliam che a Wall Street di Oliver Stone, Scorsese declina la parabola di Jordan Belfort, broker imbroglione e sregolato, come una cavalcata inarrestabile e afrodisiaca. Anche con molti spunti di commedia, a partire dalla presenza di Jonah Hill nei panni di Donnie, il braccio destro di Belfort, compagno di sballi e di scopate, oltre che abile venditore di fuffa. Ancora giovanissimo, l’aspirante miliardario venuto su dal nulla viene istruito da un mentore sui generis (Matthew McConaughey in un’apparizione trascinante: e chissà che non sia proprio lui, candidato come protagonista per Dallas Buyers Club, a soffiargli l’Oscar) che, a colpi di smorfie e faccette, gli spiega che nel loro settore bisogna masturbarsi almeno due volte al giorno e fare abbondante uso di eccitanti e alcol per poter tenere il ritmo. Non si può fregare il mondo intero – e specialmente i poveracci a cui è fin troppo facile vendere penny stock, azioni spazzatura, con la promessa di guadagni improbabili che ne cambieranno le squallide esistenze – se non si è perennemente drogati, survoltati, eccitati. Non solo cocaina, ma soprattutto quaalude, un ipnotico che, assunto in dosi massicce, ha effetti allucinogeni e induce una sorta di paralisi con effetti per lo spettatore esilaranti.
 
Jordan Belfort – che a 26 anni aveva guadagnato 49 milioni di dollari con i suoi sistemi fuori da ogni controllo e che era stato anche incoronato dalla rivista Forbes, che coniò per lui la calzante definizione di “lupo della finanza”, homo homini lupus – caricava a pallettoni i broker raccogliticci della sua Stratton Oakmont con una propaganda martellante: orge sfrenate, stipendi da favola e ignobili trovate, come il lancio di un nano contro un bersaglio da freccette o l’umiliazione pubblica di un collega non in linea con il mood aggressivo del gruppo. “Il protagonista di questa storia mi sembra un Caligola moderno – spiega DiCaprio – lussuria e depravazione si trasferiscono dalla Roma antica a New York, che alla fine degli anni ’80 sembrava il selvaggio West”. Il lusso e lo spreco sono all’ordine del giorno: Belfort, che oggi fa conferenze come motivatore, ha raccontato la sua vicenda in un’autobiografia senza peli sulla lingua pubblicata in Italia da Rizzoli (Bur, pp.582, 17 €). Quando era sulla cresta dell’onda possedeva uno yacht di 50 metri un tempo appartenuto a Coco Chanel che aveva regalato alla splendida seconda moglie (l’attrice emergente Margot Robbie), spendeva cifre astronomiche in prostitute, sfasciava auto di lusso senza battere ciglio, abitava in una villa faraonica che nel film ricorda quella di Gatsby. E come Gatsby – o come i gangster di Quei bravi ragazzi – il personaggio riesce a esercitare un fascino che va oltre le sue azioni. “Mi affascina – prosegue Leo – l’assoluta onestà con cui parla del suo comportamento sregolato. Non ha omesso nulla, non ha cercato di difendersi. Non voleva scusarsi della sua passione per la ricchezza o le dipendenze folli. E alla fine ha dovuto pagare un prezzo”. Gli dà manforte il cineasta, pronto a dire che “la storia di Jordan coglie perfettamente l’attrazione che provano gli americani verso le storie di ascesa e caduta, come dimostra la tradizione dei gangster”. In più, in questo caso, in molti sono pronti a sottoscrivere, dopo il crollo del 2008 e immersi in una crisi che non ha molto da invidiare a quella del ’29, che nella finanza senza pregiudizi si annida il male assoluto.

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20 Gennaio 2014

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