DIARIO#2


Maledette (famiglie) vi odierò. Famiglie di sangue o clan. Famiglie mafiose, soprattutto. Alla Mostra passa il primo italiano in concorso – I cento passidi Marco Tullio Giordana – e curiosamente anche Brother (fuori concorso perché ormai Takeshi Kitano ha già vinto tutto a partire dal Leone d’oro per Hana-bi). E viene fuori che due cineasti diametralmente opposti, hanno qualche punto in comune sul tema. In attesa di Placido Rizzotto di Scimeca (Placido lotta contro suo padre rifiutando la legge dei campieri, ma poi sarà proprio suo padre, quando Luciano Liggio lo sciancato lo farà sparire in un fosso, a denunciare la verità ai carabinieri). Se poi ci aggiungi Estate romana, il bel film di Matteo Garrone visto per “Cinema del presente”, che si può tranquillamente leggere come una strampalata ricerca su una forma alternativa di famiglia, il cerchio si chiude perfettamente.
Partiamo da Giordana. Che torna a sei anni da Pasolini, un delitto italiano con un altro film destinato a dividere ma che, speriamo, piacerà ai giovani. Molti applausi e commozione, ma anche qualche dissenso lampante, alla proiezione per i critici. Forse perché la ricostruzione dell’omicidio mafioso di Peppino Impastato, e anche della sua epoca, dal ’68 al rapimento Moro, tra hippie, giornali ciclostilati, radio libere dell’estrema provincia d’Italia come in Radiofreccia, tocca corde sentimentali un po’ “facili” e magari “antiche” e omaggia evidentemente il cinema dell’impegno da Petri a Rosi, citato infatti per Le mani sulla città, che possono anche sembrare superati.
Ma è davvero molto emozionante il versante privato del film: la descrizione dei rapporti tra il giovane “contro” Peppino e le famiglie, quella di nascita, che si allarga fino al cugino americano, quella del potere che regge a Cinisi contrabbando di droga e speculazioni edilizie attorno all’aeroporto di Punta Raisi. Rapporto violento fino alla colluttazione fisica ma anche disperatamente pieno d’amore con il padre, la madre, il fratello minore, l’altro padre, il “comunista” Stefano Venuti, pittore e segretario della sezione del Pci, messo in discussione ma amato. Peppino, coraggioso e febbrile nell’interpretazione “teatrale” di Luigi Lo Cascio, disonora e Tano “Seduto” Badalamenti con l’arma politica del cazzeggio. Diversamente da altri indiani metropolitani pagherà con la vita.
C’era anche suo fratello Giovanni qui al Lido. E altri fratelli, di sangue o d’elezione sono al centro di Brother (in Italia distribuisce KeyFilms), il film con cui Kitano si sposta dal Giappone a Los Angeles per una coproduzione nippo-britannica guidata da Jeremy Thomas. Ma resta nel cerchio chiuso della yakuza e dei codici del cinema di genere (anche americano anni ’50 e persino con qualche ironica “citazione” gangsta rap). Beat Takeshi è un gangster espulso dal clan: parte per gli States alla ricerca di un fratellastro più giovane, lo trova affiliato a una gang afro svelta di coltello, dopo incomprensioni iniziali si mettono in affari e insieme sbaragliano la concorrenza grazie ai metodi violentissimi del nuovo boss giallo. “In Giappone – dice Kitano – la famiglia è un modello onnipresente: in un’azienda il capo è il padre e gli impiegati sono come bambini; nella yakuza tutti si considerano fratelli e applicano l’antico ideale del sacrificio di sé ormai sparito dal resto della società”. Takeshi, anche durante l’intervista, è rimasto impassibile, quasi immobile a parte il celebre tic facciale e un paio di risate pressoché inspiegabili. Sapete qual è l’unica cosa che non gli piace nel mestiere del cinema? Alzarsi presto la mattina. Come non condividere?

01 Settembre 2000

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