Avvio pentecostale per il settimo Festival di Roma, in un Auditorium mai così tranquillo, con le creazioni scenografiche di Cinecittà, tra cui la divinità egizia di Cleopatra di Mankiewicz e il dragone di Delitto al ristorante cinese di Bruno Corbucci ad attendere in composto silenzio in vista del red carpet di stasera. Pare ci sia stata una significativa flessione nella vendita dei biglietti, qualcuno parla del 50%. Il presidente Paolo Ferrari ridimensiona: “Si tratta di un 15%, ma confidiamo nei prezzi variegati, adatti anche alle tasche di studenti e lavoratori per recuperare”.
Interviene Marco Müller, subito bersagliato da critiche per la scelta del film d’apertura, opera del tagiko Bakhtyar Khudojnazarov, considerato da molti poco appetibile per il grande pubblico: “E’ stato Gian Luigi Rondi a cambiare il nome da Festa a Festival, da quel momento Roma ha iniziato a essere fratta in due metà. Noi non abbiamo perso il carattere di festa popolare perché ci sono anche film americani spettacolari e film di genere, ma i due versanti, d’autore e popolare, dialogano tra loro, non divisi da steccati che potrebbero esserci tra cinema alto e basso. Abbiamo preso i film che ci sembravano più belli di altri, senza privilegiare solo un aspetto”. E non nasconde che spera di riempire la nuova tensostruttura da 1.400 spettatori, la Sala Lotto. Una soluzione potrebbe essere proiettare il derby Lazio-Roma in Sala Petrassi, domenica alle 15. L’hanno chiesto alcuni giornalisti e il presidente Ferrari non è sembrato contrario. A Taormina, la scorsa estate, la simifinale dei Mondiali Italia-Germania, riempì il Teatro Antico fino all’inverosimile in una serata memorabile per il Festival diretto da Mario Sesti con Carlo Verdone e Sofia Loren a fare il tifo.
Chissà cosa ne penserà Marco Müller. Che intanto si presta a fare da moderatore alle due velocissime, e un po’ sguarnite, conferenze stampa delle giurie. Quella di Prospettive Italia, la vetrina nazionale, è presieduta da Francesco Bruni, lo sceneggiatore diventato regista con Scialla! Per Bruni: “Siamo di fronte a una situazione insolita e anche preoccupante del cinema italiano. Ci sono stati negli ultimi due anni esordi notevolissimi, come quello di Andrea Segre o di Alice Rohrwacher, eppure questo è un momento difficile per esordire al cinema con un film di qualità. Anzi, mi sorprende che ci sia ancora qualche produttore coraggioso che investe in questi progetti”.
Per Babak Karimi, il montatore e attore iraniano che da moltissimi anni vive nel nostro paese: “Il cinema italiano è sempre stato ispirazione per quello iraniano, con neorealismo prima, con la commedia poi, con Matteo Garrone e Paolo Sorrentino. L’amore prosegue, anche perché ci sono parallelismi tra i due paesi, nella società, nelle guerre che abbiamo vissuto. Oggi i vostri film si vedono in sala ma soprattutto al mercato nero dei dvd”. Interviene Zhao Tao, l’attrice cinese David di Donatello per Io sono Li. “Alcuni anni fa grazie al mercato nero e ai dvd pirata potevamo vedere film dal mondo intero, ora lo facciamo grazie a internet. Ma sono pochissimi i film europei che arrivano in Cina e per vedere l’iraniano La separazione sono andata apposta a Hong Kong”. Marco Müller annuncia che al Mercato ci sarà un distributore cinese convinto ad acquistare almeno due film italiani. E cinese sarà anche il secondo film sorpresa del Festival, come il primo del resto. A quanto pare è ancora bloccato a Pechino non dalla censura come si potrebbe pensare ma dalla burocrazia. Il 18°Congresso del Partito Comunista Cinese, in corso fino a mercoledì, ha paralizzato l’intero paese, ufficio visti compreso. Ma si spera di fare in tempo a portare film e regista qui a Roma.
Nessun cinese nella giuria internazionale del concorso, composta quasi del tutto da “esordienti” assoluti nel ruolo di giurato. Primo fra tutti il presidente Jeff Nichols che si è divertito a commentare la regola del cavallo dei pantaloni, un vecchio… cavallo di battaglia di Marco Müller. Secondo il direttore artistico quando uno si alza da una proiezione coi pantaloni sgualciti vuol dire che il film, checchè ne dica, non è piaciuto, che si è agitato sulla poltrona. “E’ una buffa regola, ma siccome non sono mai stato in una giuria prima non so se sia valida. Ero preoccupato dall’incarico, ma Marco mi ha tranquillizzato, mi ha detto di lasciarmi guidare solo dalle mie emozioni. Cercherò nei film almeno una scena che possa arrivare al publico. E non ho principi politici”, ha detto il regista americano di Mud. Valentina Cervi pensa che si farà condizionare inevitabilmente dagli altri giurati: “E’ un mistero come una giuria decida di premiare o non premiare e secondo me riguarda anche il clima che si crea al suo interno”. Leila Hatami, l’attrice di Una separazione (come Babak Karimi, del resto), cercherà qualcosa di originale e di autentico, fatto con buon gusto. L’australiano Hogan non ama i premi. “E’ la maledizione di un regista fare un film solo per acchiappare un premio”. E Müller già pensa ad accontentarlo con premi diffusi.
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