87 ore è il tempo, breve e interminabile, in cui Francesco Mastrogiovanni, è morto di cattiva psichiatria, di indifferenza, di spersonalizzazione. Fermato da carabinieri, polizia municipale e guardia costiera sulla spiaggia di San Mauro Cilento, sottoposto a Trattamento Sanitario Obbligatorio nell’Ospedale psichiatrico di Vallo della Lucania, è rimasto legato al letto, nudo, sedato e alimentato solo da qualche flebo, per quei giorni che separano il 31 luglio al 4 agosto del 2009, quando è stato ucciso da un edema polmonare. Ora questa vicenda è raccontata in un film sconvolgente, 87 ore, che Costanza Quatriglio ha realizzato utilizzando i video delle camere di sorveglianza a circuito chiuso dell’ospedale. “Immagini a scatti – dice la regista palermitana – restituiscono la meccanicità della procedura, la reificazione dei corpi, una disumanità filmata da un occhio disumano che si sostituisce alla relazione degli esseri umani con altri esseri umani”. In questo caso, però, quelle stesse videocamere hanno reso possibile alla collettività di entrare nel recinto chiuso a chiave di una psichiatra imposta come mezzo di distruzione e quindi di conoscere ciò che è veramente accaduto e che in tanti altri casi è rimasto oscuro.
Il film, che sarà in sala a Roma e Milano dal 23 novembre, distribuito da Cineama, e andrà in onda il 28 dicembre su Raitre (la rete che già nel 2010 si era occupata del caso con Mi manda Raitre), viene presentato in anteprima al Festival Arcipelago il 6 novembre. E’ prodotto da Marco Visalberghi, Luca Ricciardi e Roberta Ballarini con il contributo del MiBACT, è sostenuto da Amnesty International, dall’associazione A Buon Diritto e soprattutto dalla famiglia di Mastrogiovanni, in particolare la nipote Grazia Serra (la sorella di Francesco non ha mai voluto vedere i filmati della sorveglianza, mentre l’anziana madre dell’uomo è stata tenuta quanto possibile al riparo dall’orrore). Proprio Grazia ha autorizzato, con una scelta dolorosa, la visione delle immagini a circuito chiuso, che vennero dapprima trasmesse online dal sito de L’Espresso in occasione del processo di primo grado – ora è in corso il processo d’appello – in cui sei medici sono stati condannati per sequestro di persona, morte per conseguenza di altro delitto e falso ideologico in atto pubblico, e in cui la contenzione è stata definita “illecita, impropria e antigiuridica”. Tuttavia i dodici infermieri sono stati assolti perché obbedirono a un ordine ritenuto legittimo.
Ed ecco un ulteriore elemento di affinità con le pratiche del lager – o di altri luoghi di umiliazione e annientamento dell’essere umano come Abu Ghraib – e il processo al nazista Eichmann di cui si occupò Hannah Arendt, non a caso evocata da Costanza quando parla di banalità del male. “E’ proprio questa la scelta narrativa del film, mostrare un modo meccanico di procedere, Francesco Mastrogiovanni viene strappato al mare e viene ricondotto al mare perché muore per annegamento interno come ci spiega il patologo. Solo l’occhio umano che guarda le sue ferite, i segni della contenzione sui polsi e sulle caviglie, ci dice cosa è veramente accaduto. La relazione di un essere umano con un altro essere umano è rivelatrice: se il corpo non può più parlare, può tuttavia essere ascoltato”. Costanza non ha voluto inserire le testimonianze degli infermieri: “Sono anonimi ingranaggi senza volto. Ho letto i verbali e so come parlano. Ma quel modo di guardare attraverso le videocamere che usano anziché entrare nella stanza oppure entrando ma ignorando il paziente, era un modo di isolarlo e quindi uno strumento di tortura. Quello sguardo lo ha condotto alla morte, allo stesso modo della contenzione”. Qualche tempo fa, racconta la regista, uno di loro si è fatto avanti e l’ho incontrato. Ha detto di non aver capito all’epoca cosa stesse succedendo. “Me ne sono reso conto solo dopo, vedevo solo il mio pezzettino, ha detto. Ecco, i torturatori frammentano la responsabilità, è lo spettro di quanto accaduto durante il nazismo… Avrei inserito le sue parole nel film ma si è pentito di avermi incontrato, non ha più risposto al telefono”.
In 87 ore c’è invece il racconto di Grazia Serra che andò a visitare lo zio ma non fu lasciata entrare. “Non sapevo di avere il diritto di vederlo. Il rimorso mi logora perché quel giorno mi sono fidata del medico. Non sapevo che si può chiedere una revoca del TSO, che la persona ricoverata ha diritto di vedere i familiari o un avvocato. Voglio che le persone non siano più all’oscuro di questi diritti”. Già perché si continua a morire di TSO e di contenzione. E’ successo tre volte questa estate, come spiega Luigi Manconi. “Due dei medici condannati a Vallo sono stati al centro di un’altra vicenda nel giugno 2015: in provincia di Salerno un giovane è morto e anche in quel caso i familiari non hanno potuto incontrare il loro parente. Oltre a lui hanno perso la vita un uomo nella campagna padovana e un giovane che è stato soffocato durante la cattura in un piccolo parco di Torino. Il TSO viene applicato come se fosse un mandato di cattura e con procedure che possono essere letali. Essere matto è tornato ad essere un capo di imputazione, una colpa”. Per Peppe Dell’Acqua, psichiatra salernitano, collaboratore storico del padre dell’antipsichiatria Franco Basaglia, “La psichiatria non ha mai smesso di costruire questo paradigma: la malattia mentale come annientamento della persona”.
Francesco Mastrogiovanni era un insegnante di scuola elementare, nato nel ’51 a Castelnuovo Cilento. Di idee anarchiche, negli anni ’70 era stato coinvolto in una rissa in cui c’era scappato il morto e lui era rimasto accoltellato. Si era trasferito a Bergamo per lunghi anni ed era tornato a casa solo nel ’99. Tra il 2002 e il 2005 era stato sottoposto tre volte al TSO. Quel 31 luglio, quando l’hanno caricato sull’ambulanza, ha detto: “Non mi portate a Vallo perché lì mi ammazzano”.
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