CANNES – Alain Delon era figlio di Fabien, direttore di un piccolo cinema di quartiere, a Sceaux, nell’Île-de-France: nonostante questo, la carriera di Delon non era previsto fosse quella del cinema, ma quella militare nella Marina per cui “sono stato a combattere anche in Indocina”, ha ricordato lui stesso, nel Rendez-Vous che l’ha visto protagonista nella mattinata e che anticipa la premiazione serale, con la consegna della Palma d’Onore.
Una donna – e Delon ripete più volte nell’incontro di essere “debitore alle donne per il mio successo”, l’attrice hitchcokiana Brigitte Auber, lo fa innamorare, tanto che lui lascia la carriera militare e conosce l’attore Jean-Claude Brialy, che lo invita nel ’56 al Festival di Cannes, occasione in cui la sua bellezza rimane impressa. Per questo Delon spiega perché ha spesso detto “la mia carriera è stato un incidente”. È stato Godot (Yves Allégret,1957) il suo esordio di fronte alla macchina da presa, e “sin dalla prima volta sono stato quasi subito a mio agio, ho percepito che quella era la mia vita, e le parole che più spesso mi hanno ripetuto gli autori sono state: non recitare, usa lo sguardo e vivi!”, così Alain Delon sintetizza l’avvicinamento “casuale” al grande schermo e le “regole” della sua interpretazione.
“Non ho mai avuto un agente nella mia carriera, solo in un’occasione, quando mi è stato presentato Luchino Visconti, a Londra, mentre era in corso una rappresentazione del Don Giovanni: ero stato visto recitare e mi veniva ripetuto ‘tu sei Rocco, tu sei Rocco’, così mi hanno fatto conoscere Luchino”, ricorda Delon che, dinnanzi alle sequenze che scorrono sullo schermo, tratte da Rocco e i suoi fratelli (1960) e Il gattopardo (1963) – film che lo consacra nel ruolo di Tancredi, si commuove, non nasconde le lacrime, discrete ma visibili, né la voce un po’ strozzata. Di Rocco ricorda come sia “stato un sacrificio, ma uno di quelli che hanno generato una delle migliori cose possibili”; del secondo ruolo, di cui sono state mostrate le immagini del dialogo con Don Fabrizio (Burt Lancaster), mentre quest’ultimo si fa la barba e ai due s’accompagna in scena anche un cane doberman, l’attore offre un ricordo personale: “quello in scena, era il mio cane nella vita, sempre con me dentro e fuori dal cinema”. Riconoscente a Visconti, come a René Clément (Delitto in pieno sole, 1960), per cui dice che “il premio della Palma d’Onore sarebbe da conferire a loro, anche se lo ritiro io”.
Mentre parole – e soprattutto immagini – scorrono, ci si rende conto di come nessun interprete della sua generazione abbia saputo “occupare lo spazio” scenico come Alain Delon, talento che con potenza esce da ruoli come quello di Philippe Greenleaf, proprio dal film di Clément, ma anche dal noir Il ribelle di Algeri (1964), diretto da Alain Cavalier, in cui interpreta il disertore Thomas Vlassenroot con l’italiana Lea Massari, il primo film che lo stesso Delon ha contribuito a produrre; un ruolo, quello del produttore, a cui lui tiene, e che ribadisce, perché, riconoscendo di non essere un capace sceneggiatore, produrre è “dimostrazione di partecipare e credere in quello che stai facendo. Produrre il film è stato meraviglioso, mi faceva sentire anche un maestro, un boss”, enfatizza con ironia, un tono che è ricorso, delicato ma ripetuto, in questo incontro.
Il destino cinematografico di Delon è andato di pari passo anche alla vita della Nouvelle Vague e al periodo americano: “ho vissuto là due anni, ma poi mi mancavano Parigi, i suoi cinema, e così ho lasciato l’opportunità di quella carriera e sono rientrato, applaudito dai francesi per la scelta”, ha ricordato. Come francese è stato un altro regista a cui Delon ha connesso la sua carriera, Jean-Pierre Melville, che ha rinnovato la sua consacrazione con il ruolo protagonista in Frank Costello faccia d’angelo (1967), di cui non dimentica “un primo incontro molto semplice: ci siamo seduti e lui mi ha raccontato Le samurai, anche se a Melville connetto inoltre qualche ricordo drammatico. Quello dell’incendio che ha mandato a fuoco tutti gli studi cinematografici e quello della sua morte: stavamo cenando a Parigi, in compagnia anche di un giornalista, e Jean-Pierre ha iniziato a ridere… e la risata s’è interrotta – per una crisi cardiaca – e lui è mancato”. Nella memoria collettiva Melville però ha contribuito a iconizzare ulteriormente Alain Delon, che nel film ha “debuttato” indossando l’italiano cappello Borsalino. Il copricapo tornerà anche in Mr. Klein (1976) di Joseph Losey, all’epoca presentato in Concorso a Cannes, in cui Delon interpreta un medico francese, nella Parigi occupata del ‘42, parte che ha accettato “perché volevo provare a ‘fare il percorso’ difficoltoso del protagonista, anche ricordandomi che in quel periodo storico – quello della Seconda Guerra Mondiale – ero un bambino di meno di 10 anni”.
Come dichiarato in apertura, Alain Delon, anche durante l’incontro, ricorda spesso l’importanza delle donne nella sua carriera, non dimentica la nostra Monica Vitti, compagna ne L’eclisse (1962), e segue immancabile un ricordo, accennato, di Romy Schneider, con cui ha creato una coppia d’oro del cinema, e che Delon sfiora appena, probabilmente per malinconia: “La piscina (Jacques Deray, 1969) non lo riesco più a guardare, troppo difficile pensando a Romy, anche se è un film magnifico, di cui s’è parlato per molti anni”.
Nella serata di oggi, Alain Delon riceve ufficialmente la Palma d’Onore.
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