C’è qualcosa negli unicorni che continua a parlarci, anche ora che la magia e il fantastico sono stati sezionata, analizzati e ricondotti a ogni genere di spiegazione scientifica possibile.
Anche ora che perfino il fantasy è diventato materia da algoritmo. Forse perché l’unicorno non è mai stato solo una creatura da fiaba: è un simbolo. Un’idea.
È la purezza che si difende, il mistero che non si lascia addomesticare, la bellezza che non si può toccare senza pagare un prezzo.
In questi giorni arriva nelle sale Death of a Unicorn, diretto da Alex Scharfman, con Paul Rudd e Jenna Ortega nei panni di un padre e una figlia che, durante un viaggio in auto, investono nientemeno che un unicorno. Ma non si tratta di una favoletta bucolica: è l’inizio di un racconto oscuro, satirico, perfino crudele, in cui il corpo magico della creatura diventa il centro di speculazioni, misteri e ambiguità morali. Il film, prodotto da A24 e distribuito da I Wonder Pictures, è uno di quei casi in cui il surreale serve per parlare del reale, e il fantasy si fa chirurgia sociale. Non è un caso che proprio l’unicorno venga scelto come detonatore: nessun’altra creatura ha un carico simbolico tanto preciso e tagliente.
Non a caso, il cinema ha sempre trattato gli unicorni con estrema cura, e raramente li ha mostrati con leggerezza. In Legend (1985), Ridley Scott trasforma l’unicorno in fulcro cosmico: la sua uccisione da parte delle forze del Male rompe l’equilibrio tra luce e oscurità. Qui la creatura non è solo un animale mitico, ma un principio metafisico. Quando il demone incarnato da Tim Curry mozza il corno di uno dei due ultimi esemplari, l’intero mondo sprofonda nell’ombra. È il peccato originale in versione fantasy, il Giardino dell’Eden ferito dalla brama.
Non è molto diverso ciò che accade, in un altro genere e in un altro registro, nel primo Harry Potter, dove il sangue di unicorno – bevuto da Voldemort – permette la sopravvivenza, ma al prezzo di una maledizione eterna. Anche qui l’atto sacrilego, la violazione della creatura pura, è una soglia morale. Il Male si definisce nel momento in cui è pronto a uccidere ciò che è intoccabile. Il corpo dell’unicorno è inviolabile, e proprio per questo è sempre al centro del desiderio. Naturalmente, questo apparato narrativo viene ereditato direttamente dalla versione letteraria, a cui non possiamo che riconoscere un livello di lettura allegorico ben più profondo del semplice racconto di intrattenimento per bambini, il che spiega la durata del suo successo e la sua popolarità anche presso un pubblico adulto.
Talvolta, però, il cinema cambia passo e guarda all’unicorno con malinconia. In The Last Unicorn (1982), poetico e poco conosciuto film d’animazione tratto dal romanzo di Peter S. Beagle, la protagonista è l’ultima della sua specie, una viaggiatrice che attraversa un mondo dimentico della magia in cerca dei suoi simili. Durante il viaggio viene trasformata in donna, ama, soffre, dimentica chi è. Ma la memoria torna, come sempre accade ai simboli forti, e con essa il corno. È un’opera struggente, capace di raccontare la perdita e il ritorno dell’identità con la leggerezza della fiaba e la profondità del mito.
In un altro capolavoro di Scott, Blade Runner, l’unicorno appare in un sogno. Un flash, un’immagine, un corno che taglia la nebbia fitta di ricordi e consapevolezze che hanno paura ad emergere. Ma è tutto. Eppure quell’immagine – una visione forse impiantata – diventa la chiave per capire il protagonista. È il momento in cui si insinua il dubbio: e se Rick Deckard non fosse umano, ma creato a sua volta? L’unicorno, creatura perfetta, diventa il simbolo di un’umanità costruita, illusoria, desiderata. Un paradosso che solo il cinema di fantascienza può sostenere, ma che pesca ancora una volta dal mito.
Non sono mancati gli usi ironici e sovversivi. In Cabin in the Woods (2012), un unicorno impala un tecnico in una scena volutamente splatter e grottesca: una beffa, un ribaltamento che funziona solo perché il simbolo originario è così saldo. Nel mondo colorato di My Little Pony, gli unicorni diventano creature amichevoli e sorridenti, protagoniste di storie di crescita, potere e sorellanza. Ma anche qui, dietro la patina pop, resta il nucleo archetipico: unicorno come alter ego di chi cerca il proprio posto nel mondo, magari con una criniera arcobaleno.
Così, mentre Death of a Unicorn si prepara a mostrare la fine – o forse la metamorfosi – di una delle icone più durature dell’immaginario collettivo, il cinema continua a parlarci, corno dopo corno, di ciò che vogliamo proteggere e di ciò che siamo disposti a sacrificare. L’unicorno non è mai stato solo un animale. È un test. Un’ombra della nostra coscienza.
E come ogni buona creatura fantastica, muore veramente solo se smettiamo di crederci.
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