Una Passione di Cristo agnostica allestita in carcere che arriva nelle sale a Pasqua. Ma senza timori di offendere le coscienze. “E’ la data giusta per permettere al film di avere il tempo di affermarsi, in più Davide Ferrario tratta i temi religiosi con sensibilità e rispetto, anche se criticamente, e siamo certi che non darà noia a nessuno”, dicono alla Warner. Che distribuirà dal 10 aprile in circa 70 copie Tutta colpa di Giuda, una commedia quasi musical girata nella sezione VI della Casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. E’ lì che una giovane regista di teatro di ricerca, interpretata da Kasia Smutniak, arriva, invitata dal cappellano del carcere, per la messa in scena di uno spettacolo ispirato ai Vangeli. Detenuti veri, musicisti e attori insieme per un film nato senza una sceneggiatura di ferro, che parla di libertà e sacrificio, amore e fede, redenzione e segni del caso. Fabio Troiano è il direttore del carcere, disincantato ma capace di gesti coraggiosi, Gianluca Gobbi il prete, Cristiano Godano lo svogliato fidanzato della protagonista, Cecco Signa un carcerato rapper, Paolo Ciarchi un altro carcerato che inventa suoni e percussioni con quello che gli capita a tiro. E Luciana Littizzetto è Suor Bonaria, “un paradosso vivente perché rovescia di segno la sua aggressività da mangiapreti”, come dice il regista. La suora, infatti, vorrebbe bloccare questa Passione “blasfema”, dove Cristo scende dalla croce per ballare e dove nessuno vuole il ruolo di Giuda. Una Passione senza tradimento, condanna e punizione. Una storia liberatoria che finisce in un miracolo laico con John Lennon al posto dei profeti.
“Tutta colpa di Giuda” viene da lontano, dalla sua frequentazione del carcere di San Vittore prima e delle Vallette poi.
Beh, non puoi andare in carcere, fare un film mordi e fuggi e poi scappare. Quello con i detenuti è un rapporto che deve crescere e che per me è iniziato nove anni fa, quando feci casualmente la prima lezione in un corso di montaggio a San Vittore. Ci trovammo bene e da allora ho cominciato a lavorare “dentro”. A Milano stavo al Penale, con ergastolani, rapinatori e anche qualche BR, a Torino invece ho frequentato la sezione Prometeo, dove ci sono soprattutto delinquenti piccoli, coinvolti in reati di droga, rapinatori di farmacie.
Lei ama dire che questo non è un film sul carcere.
E’ vero, semmai è un film “nel” carcere. Tutta colpa di Giuda parla in effetti di religione. Sono un ateo convinto e sereno, ma bisogna avere fede per esserlo. Capisco il senso della religione come risposta alle grandi domande della vita, anche se penso che sia assurdo che qualcuno si alzi la mattina e si metta a parlare in nome di Dio, compreso quel signore che abita qui sul Tevere. Però credo ai miti e il Cristianesimo è mito fondante della nostra cultura.
Ma perché andare proprio in carcere per parlarne?
Intanto perché il penitenziario nasce da un’idea religiosa, quella della redenzione dei delinquenti. Poi perché mi sono sempre chiesto che cosa sarebbe successo se Giuda, invece di dare il famoso bacio, si fosse rifiutato di collaborare all’autodistruzione di Gesù. E se c’è un luogo dove nessuno vuole fare il traditore, almeno non apertamente, quello è il carcere.
Nel film c’è anche una rilettura abbastanza singolare dei Vangeli, che passa attraverso la scoperta che ne fa la protagonista.
I Vangeli si tende a darli per scontati. Chi è che li legge davvero? Però se li rileggi viene fuori qualcosa di diverso dal “lasciate che i pargoli…”. Viene fuori Gesù come un personaggio che ha un problema, quello di salvare il mondo, e ne è ossessionato. E’ uno schizzato, ma nel senso moderno del termine.
Come viene fuori, invece, l’idea del musical?
Era una sfida apparentemente folle. Il tema religioso si porta dietro l’idea del musical vaticanista, tipo Maria di Nazareth e Jesus Christ Superstar. Tutta colpa di Giuda, però, non si ferma mai per far cantare o ballare la gente, è un happening in cui la musica sta dentro l’azione. Il rock dei Marlene Kuntz convive con le ballate di Cecco Signa, la fisarmonica romantica di Fabio Barovero, il beat di Gianni Maroccolo, il rumorismo di Paolo Ciarchi, l’orchestra sinfonica di Forti e De Luca, mentre la coreografa Laura Mazza è riuscita a far ballare un gruppo di detenuti come se fosse la cosa più naturale del mondo. E poi c’è Fabio Troiano che canta, una via di mezzo tra Bollywood e Brecht.
Non si è ispirato quasi per nulla al filone carcerario classico, ma piuttosto ci sono echi di tanti lavori alternativi, il carcere come laboratorio permanente di sperimentazione di rapporti umani.
Al cinema il carcere è raccontato sempre come luogo di conflitto oppure attraverso il mito dell’evasione. Noi per anni ci siamo frequentati senza l’idea di fare un film “vero” e questo è servito a creare un rapporto di fiducia. E’ stata un’esperienza quasi documentaria, con una parte di imponderabile, anche nelle condizioni atmosferiche, con i tempi dettati dal carcere e con le battute non scritte.
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