Davide Ferrario: il demone del progresso, dall’acciaio al nucleare

VENEZIA – “La zuppa del demonio” è il termine usato da Dino Buzzati in un commento al documentario industriale Il pianeta acciaio, del 1964, per descrivere le lavorazioni dell’altoforno.


Il demonio è il progresso, seducente e al contempo spaventoso. Oggi Davide Ferrario riprende l’espressione per titolare il suo documentario, Fuori Concorso a Venezia 71, interamente realizzato con materiali d’archivio. Bastano le immagini (anche di grande valore cinematografico, come una lunga panoramica dall’alto dell’interno dell’Italsider poi diventata Ilva) e i commenti originari o quelli successivi, fra gli altri, di Ermanno Rea e Giorgio Bocca, per raccontare un’epoca di fiducia nel progresso, con la corsa a lasciarsi alle spalle la guerra, la fame, puntando sull’industria. Dai Cinefiat ai documentari sulle diverse filosofie di Olivetti e delle aziende pubbliche. “Non è la prima volta che lo faccio – dice il regista – nel 1992 realizzai una serie televisiva in sei puntate, American Supermarket, che fu venduta in tutto il mondo. Si trattava del montaggio di filmati educativi, spot, documentari, promozionali, film di governo Usa degli anni ’40 e ’50: tutto senza una parola di commento, lasciando al montaggio e alla musica la costruzione del senso. Sono affascinato dalla retorica del discorso filmico originale: mi piace pensare che si possa prendere quel codice e orientarlo per fargli dire qualcosa di personale”.

Come nasce l’idea del film?

E’ merito di Sergio Toffetti, Direttore dell’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa di Ivrea, che ha insistito perché dessi un’occhiata ai loro materiali. Così mi è venuta l’intuizione di raccontare la storia del progresso del Novecento, o meglio, dell’idea di progresso.

Un bel mosaico di immagini, suoni e citazioni letterarie. L’idea che emerge è quella di una natura dalle risorse illimitate, senza alcuna preoccupazione per l’ambiente…

Racconto un periodo, fino agli anni ’70, in cui quell’idea non esisteva. Come vedete ci sono scene del film in cui gettano carcasse di auto nel ‘mare nostrum’. Anche nei temi che ci facevano scrivere, l’idea di base era che la natura non fosse qualcosa di buono da rispettare, ma qualcosa di cattivo e pericoloso, da dominare. Oggi ovviamente non si può pensare all’industria senza considerare l’impatto ambientale. La preoccupazione di allora era, casomai, che le macchine potessero prendere il posto dell’uomo, e soppiantarlo nella sua funzione di lavoratore. Solo nei ’70, su cui il film si chiude, arriva la crisi dell’industria petrolifera e con essa i primi cenni di ambientalismo.

L’utopia dello sviluppo senza limiti ha segnato un’intera generazione…

Esattamente. Potevi essere di destra o di sinistra, ma si pensava che il progresso “avesse sempre ragione”, che fosse un bene in sé. L’Italia del dopoguerra ha interamente aderito a questo modo di ragionare.

Ma cos’è, esattamente, il progresso? Un’idea oppure un contenitore da riempire con sfumature e varianti? All’inizio del film il progresso è “l’acciaio”. Alla fine il nucleare.

Abbiamo voluto raccontare il Novecento, il secolo breve. Quello che ne emerge è la mutazione antropologica, quasi pasoliniana. Cambia il mondo. Ci siamo fermati dove c’era una cesura storica, ma il progresso è andato avanti entrando nell’era della digitalizzazione e dell’informatica. Se ci fa caso, ogni decennio ha il suo ‘look’, dall’acciaio al nucleare, ma dagli anni ’90, l’era della digitalizzazione e della virtualizzazione, il look non è cambiato. Sarebbe una pista interessante per una nuova ricerca.

In cosa un film di montaggio è un film di Davide Ferrario?

Per quanto mi riguarda non cambia nulla, il montaggio è cinema. Film di finzione o documentario, anche se si tratta di materiale altrui. L’importante è rispettare la natura del filmato originale, non usarlo per fargli dire altro. A almeno, se decidi di farlo, che sia chiaro che lo stai facendo. Per questo non ho voluto insistere su sfumature ironiche, anche quando si poteva. E’ anche un modo per ridare vita a materiale che rischia di diventare vecchio. Naturalmente è stato anche un lavoro di gruppo. Ad esempio nella ricerca del materiale. A volte ci metti un po’ anche a capire di cosa si tratti, come appunto in quella scena pazzesca delle macchine buttate nell’oceano.

C’è anche un tributo ai lavoratori…

I film che ho usato erano prodotti dalle aziende, c’è una retorica dell’epica imprenditoriale, col concetto di ‘impresa mondo’ che pretende di gestire la vita dei suoi dipendenti 24 ore su 24, dal lavoro allo svago. Ma si capisce che senza i lavoratori nulla sarebbe stato possibile. Le battaglie sindacali si facevano sulle retribuzioni e le condizioni di lavoro, ma il lavoro in quanto tale, opera realizzata, apparteneva a tutti. Questo senso comunitario oggi non esiste più, l’impersonalità dal lavoro moderno lo ha cancellato.

Progetti per il futuro?

Ho in mente due nuovi film di finzione, ma prima realizzerò altri due progetti fuori formato. Uno su un balletto, Sexxx, creato da Matteo Levaggi per il Balletto Teatro di Torino, e un altro sullo scrittore, pittore e critico d’arte John Berger

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