Fine amore: mai è il docu-fiction che Davide Ferrario ha realizzato assieme al Gruppo Audiovisivi del carcere di San Vittore. Protagonisti, oltre agli stessi detenuti, Aldo Giovanni e Giacomo, i super campioni di incasso del cinema italiano, che hanno deciso di vivere questa esperienza.
“Loro sono dei sinceri democratici – ci ha detto Davide Ferrario – e per questo hanno accettato di venire a San Vittore. Ci siamo incontrati una sera, ne abbiamo parlato, e sono venuti due volte per girare le loro scene. Sono stati molto gentili. Ma anche con loro abbiamo avuto dei problemi. La dirigente della sezione femminile quel giorno era appena tornata dallevacanze e per motivi suoi era nervosa e non ha voluto che si creasse un contatto tra loro e le detenute. Il carcere è questo, sei sempre vincolato alle decisioni degli altri, sei in balia delle persone e delle loro decisioni. In carcere non sei più autore del tuo destino.
E infatti i detenuti non sono riusciti ad avere il permesso per assistere alla proiezione?
Devo dire che San Vittore è un carcere in cui la direzione cerca di essere attenta al rapporto con i detenuti, soprattutto grazie al lavoro di Luigi Pagano. Il problema è che la competenza dei permessi appartiene al magistrato di sorveglianza il quale ha in mano solo un fascicolo e le informazioni le chiede alla polizia e non al carcere. Per questo sono saltati tutti e tre i permessi che avevamo chiesto. Ad uno è stato negato perché è ancora in attesa di giudizio, un altro già lavora (grazie al corso di formazione professionale ora fa il montatore per una tv privata) e non gli si volevano dare troppi privilegi. Per il terzo il rifiuto è invece assolutamente inspiegabile, a tutt’oggi non ne conosco il motivo.
Come è nato il progetto?
Il nucleo iniziale era già in un documentario che abbiamo presentato qui a Torino lo scorso anno su Pier Paolo Pasolini e che si intitolava La rabbia. In quell’occasione avevamo già utilizzato del materiale girato a San Vittore. E poi abbiamo continuato a girare. Ma non è stato sempre facile. C’è stato possibile filmare il matrimonio tra un ergastolano e una detenuta condannata a 25 anni – una scena alla quale sono molto affezionato -, ma in occasione di un altro matrimonio ci è stato negato il permesso di girare. La situazione interna del carcere dipende moltissimo dalla situazione esterna: dalla situazione politica, da come ne parla la stampa.
È stato difficile pianificare il lavoro?
Abbiamo impiegato un anno. In carcere è impossibile pianificare e per ogni piccolo passo occorre un sacco di tempo. I carcerati con i quali ho lavorato sono tutti lungo degenti, come amano definirsi, e paradossalmente godono di una maggiore libertà, possono camminare per i corridoi, hanno più tempo vuoto. I detenuti che stanno in carcerazione preventiva, al contrario, vivono confinati per venti ore al giorno dentro celle sovraffollate e la loro situazione è sicuramente peggiore. Il carcere non rieduca, è un puro sfogo della società che rinchiude chi ha violato la legge e poi butta la chiave.
Come recita il titolo, il film parla delle restrizioni affettive che vivono i detenuti?
Dentro il carcere il problema delle relazioni sessuali è un vero problema, una sorta di tabù. Non parlo solo delle relazioni fisiche, ma quando vai dietro le sbarre hai sempre a che fare con i sentimenti.
Continuerà a lavorare con i detenuti?
Più che progetti futuri, continuerò ad andare a trovarli. Si è instaurato un rapporto di amicizia, ed ho creato un rapporto umano che mi arricchisce. Il prossimo progetto insieme è un G3. Ossia una cena con due detenuti che hanno voglia di cucinare il pesce, poi c’è un brigatista che si è scoperto romanziere e che scrive pagine interessanti.
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