Necessità di cambiamento e seconde opportunità, voglia di rivincita e di reinvenzione, raccontati attraverso la nuova vita di un testimone di giustizia in Paradise, esordio al lungometraggio di finzione di Davide Del Degan (L’ultima spiaggia), presentato allo scorso Torino Film Festival (leggi il nostro articolo ) e nelle sale dall’8 ottobre con Fandango.
Protagonista un uomo ordinario che fa una scelta straordinaria, Calogero (il bravo Vincenzo Nemolato, recentemente sul grande schermo in 5 è il numero perfetto e Martin Eden), un venditore di granite siciliano che assiste ad un omicidio di mafia e decide di testimoniare. Viene così inserito nel programma di protezione testimoni e spedito tra le montagne del Friuli, a Sauris, lontano dalla famiglia che non ha voluto seguirlo e dalla figlia che sta per nascere, in un villaggio sperso nella neve, isolato dal mondo, in una realtà completamente diversa da quella che fino a quel momento conosceva. La sua scelta coraggiosa, dal forte valore civico e morale, lo costringe a un cambiamento radicale che stravolge per sempre il suo percorso di vita. Un arrivo in paese crea altro scompiglio nella nuova vita di Calogero: il sicario contro cui ha testimoniato è diventato a sua volta un collaboratore di giustizia e, per un errore amministrativo, spedito nella stessa località. Paradossalmente Calogero, che teme a quel punto per la sua vita, è considerato dal killer (Giovanni Calcagno) un liberatore, colui che gli ha dato l’opportunità di scappare da una vita che non avrebbe voluto e di abbracciare finalmente un nuovo se stesso. Così paradossalmente vicini, i due, del tutto diversi, cominciano a conoscersi e a capire che per loro, forse, una nuova vita è possibile.
Sul catalogo del Torino Film Festival si leggeva: “Paradise, una commedia stranita”. All’epoca aveva apprezzato l’aggettivo tanto da usarlo durante le presentazioni, pensa sia ancora oggi una definizione particolarmente calzante per il film?
Lo trovo sempre un aggettivo molto azzeccato. Il film ha una serie di colori, il termine commedia può starci. Ma è anche un gioco continuo di passaggi tra sorrisi, più o meno amari, e momenti più profondi necessari all’evolversi della storia e dei personaggi. Quindi ‘commedia stranita’ è perfetto.
Il film parla delle scelte straordinarie di un uomo ordinario, ma anche di nuova vita e seconde opportunità. Ci racconta qualcosa di più rispetto alla scelta del soggetto?
All’origine del film c’è stata la voglia di raccontare una storia che parlasse di nuove opportunità e seconde possibilità di vita, del coraggio di reinventarsi e riscattarsi. Di superare le paure. Emozioni che nascevano da un evento del tutto personale: stavo diventando padre per la prima volta e il solo saperlo aveva sconvolte tutte le mie certezze e capovolto molti elementi della mia vita che credevo immutabili. Nella ricerca di questo tipo di sensazioni ho iniziato a incontrare diverse storie di testimoni di giustizia, in cui spesso un elemento comune era il rapporto familiare sconvolto dalla nuova vita.
La natura nel film è potenza dominante, rude e implacabile, dove i personaggi si trovano sballottati ed estranei.
In maniera cinematograficamente forzata ho cercato la resa surreale per rendere lo spiazzamento di fronte al quale si trova un testimone di giustizia traslato in posti che non conosce, senza alcun tipo di confronto, spiazzato e nudo come mai si sarebbe aspettato e alle prese con situazioni che non sempre seguono le promesse che gli sono state fatte. Come quella di poter continuare a fare il proprio mestiere: all’inizio Calogero, che in Sicilia faceva il venditore di granite, prova a portare avanti il suo lavoro tra i monti innevati, evidentemente senza alcuna possibilità di successo.
Nonostante la tematica affrontata – le difficoltà e lo spaesamento di un testimone di giustizia costretto a cambiare vita – lo stile e il linguaggio narrativo sono quelli della commedia, e la chiave dell’ironia è sempre presente.
In generale mi piace cercare uno sguardo laterale sul racconto, capace di sorprendere e svelare, a me per primo, un punto di vista inaspettato. Nasce da questo la voglia di addentrarsi con la chiave dell’ironia nell’animo e nelle miserie umane: spesso quando ci confrontiamo con momenti drammatici della nostra vita ci guardiamo allo specchio con un sorriso amaro, che è quello che cercavamo prima di tutto di restituire nella narrazione. Volevo permettere allo spettatore di sorridere amaramente, di divertirsi ma anche riflettere sui valori morali che la storia contiene.
Oltre al nome di una struttura alberghiera, cosa rappresenta il Paradise a cui fa riferimento il titolo?
Nasce dalla ricerca di un Paradiso e di una nuova vita, dalla volontà del protagonista di reinventarsi in un posto lontano da tutto e tutti, immerso nella neve e in luoghi che non conosce. Il titolo potrebbe sembrare quasi ironico, ma rappresenta l’obiettivo del protagonista: ricostruire il proprio Paradiso, che altro non è, poi, che l’obiettivo del costruire un futuro per la figlia che sta per nascere.
Il film è stato girato in una valle isolata del Friuli-Venezia Giulia, a Sauris, paesino di qualche centinaio di anime fondato, secondo la leggenda, da due soldati tedeschi stanchi della guerra. Come mai la scelta di questa location così suggestiva?
È un paese stupendo dove si trova una comunità molto forte. È interessante, con origini germaniche, si parla un dialetto che è un tedesco del 1300. Ma è anche un posto molto aperto a ciò che viene dall’esterno, dove si svolgono molte attività culturali rinomate, come il Carnevale di Sauris. Per Calogero è un posto distante da tutto, duro, perché le montagne che lo circondano sono la rappresentazione dei suoi limiti interiori, ma al tempo stesso anche poetico.
Sempre Sauris sarà al centro del suo prossimo film, un documentario che ricostruisce il percorso del piccolo villaggio di montagna e della sua lingua.
Conoscendo più da vicino il posto e vivendo lì parecchio tempo – per la costruzione del film ci sono voluti cinque anni di sopralluoghi- ho avuto voglia di approfondire la storia locale. Ho deciso così di fare un documentario su questo luogo, che conoscevo già da bambino, ma in cui non andavo da molto tempo. Tornarci è stata una riscoperta, la possibilità di sfruttare nuove energie e avere uno sguardo nuovo sulle cose, come quello che ho affidato al mio protagonista Calogero.
Com’è avvenuta la scelta dei due protagonisti, Vincenzo Nemolado e Giovanni Calcagno, così diversi tra loro sia a livello fisico che di carattere, ma entrambi portatori nel film di un profondo senso di spaesamento e perdita?
Inizialmente cercavo attori realmente siciliani per il personaggio di Calogero, ho incontrato molti artisti straordinari che però non rispecchiavano in tutto ciò che cercavo. Quando ho conosciuto Vincenzo Nemolado, pur non avendo gli elementi fisici che avevo in mente, ho avuto un vero colpo di fulmine, sono stato colpito dal suo cuore. Vincenzo, poi, ha lavorato duramente per un anno nello studio del siciliano stretto e nel film lo parla in una maniera incredibile, molti siciliani me lo hanno confermato. Con Giovanni, invece, è stato tutto molto più rapido: è stato uno dei primi attori incontrati. Alla fine del casting ci siamo con piacere accorti che la coppia Vincenzo-Giovanni funzionava molto bene, anche da un punto di vista fisco e di energia. Erano perfetti per quello che stavo cercando.
Tra i momenti più esilaranti del film il goffo approccio dei due protagonisti con lo Schuhplattler, la tipica danza tirolese per soli uomini. Era un elemento previsto sin dalla prima fase di scrittura del film?
Assolutamente sì. Sul set abbiamo, poi, lavorato con un gruppo di ballerini professionisti provenienti da un paese vicino Sauris, dove lo Schuhplattler è una questione culturale e quasi la metà degli abitanti lo balla, indipendentemente dall’età. Sono stati bravissimi a coinvolgere gli attori, a spingerli a esprimere il massimo della loro capacità fisica ed espressiva. Nel ballo di coppia le movenze lente e colorate di Giovanni, con le sue grandi braccia, si incontrano con la gracilità di Vincenzo, in una danza rude in cui il confronto avviene quasi attraverso lo scontro.
Il film ha avuto percorso distributivo più lungo del previsto, a causa del particolare momento che stiamo vivendo, ma arriva finalmente in sala dall’8 ottobre. Non si è mai pensato ad un’uscita differente?
Paradise doveva uscire a marzo ma è stato bloccato dalla pandemia. Fandango e Pilgrim hanno fatto un lavoro strepitoso per costruire l’uscita del film, con una forte volontà di portarlo a tutti i costi in sala, non cedendo ad altri percorsi nonostante il periodo difficile. Abbiamo fatto alcune anteprime in Friuli-Venezia Giulia e usciremo dall’8 ottobre in tutta Italia. Ne sono entusiasta: il confronto con il pubblico è grandioso e insostituibile.
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