E’ una Gerusalemme lontana da rappresentazioni politiche ed etniche quella che fa da sfondo a Qualcuno con cui correre, pellicola realizzata da Oded Davidoff e tratta dall’omonimo bestseller di David Grossman. In una città piena di sorprese e pericoli s’intrecciano le storie di due adolescenti, Assaf e Tamar, che affrontano e sconfiggono le proprie paure per portare a termine quel che ritengono sia giusto.
Assaf, sedicenne timido e impacciato, è stato incaricato dalla protezione animali di ritrovare il proprietario di un labrador abbandonato, e la bella Tamar, che nel corso della storia si scopre essere la padrona del cane, cerca il fratello musicista Shay scappato di casa e tossicodipendente.
Una corsa tra i bassifondi della città che fa conoscere il volto inquietante di una Gerusalemme in cui santità e sporcizia vivono insieme.
A presentare la pellicola, in uscita con Medusa in 70 sale il 21 novembre, l’acclamato scrittore israeliano David Grossman che compare tra l’altro in un piccolo cameo nel film.
“Qualcuno con cui correre” parla di una gioventù persa nei meandri di tossicodipendenza e ribellione. E’ il ritratto dei giovani israeliani di oggi?
Gerusalemme è una città viva e ricca, fatta di tanti aspetti che non vengono sempre mostrati. Le televisioni continuano a trasmettere sempre le stesse quattro o cinque immagini che la vogliono zona di conflitto o Terra santa. Invece la Gerusalemme di tutti i giorni è quella dei senzatetto, dei drogati, delle fogne ma anche della solidarietà e della compassione che spinge i due giovani protagonisti ad andare avanti e affrontare ogni avversità.
Cosa pensa della trasposizione cinematografica del suo libro?
In genere cerco di dissuaderlo chi vuole fare un film da un mio libro. Invece quando Oded Davidoff ha cominciato a descrivermi la visione che aveva di Qualcuno con cui correre ho cambiato idea. Seguire il processo di trasposizione è stato gratificante e piacevole e Oded alla fine mi ha restituito nel suo film il libro così come glielo avevo consegnato.
Il cinema israeliano vive negli ultimi anni un momento di crescita e di impegno: sta diventando forse l’identità scomoda di Israele?
La nostra industria cinematografica ha compiuto cruciali passi avanti negli ultimi quindici anni, cominciando a mostrare la vita così com’è. I film di oggi, specialmente i documentari, si confrontano con la Palestina reale diventando una fonte d’identità capace di trasmettere senso d’appartenenza. Il compito dell’arte, soprattutto in una terra di conflitto, è mostrare anche le dimensioni scomode della realtà. Ma occorre ricordare che ogni narrazione è una visione personale e che non c’è mai una sola storia. L’arte ha il compito di abbracciare tutti i punti di vista, anche quelli del nemico.
Chi è il ‘nemico’?
Ho la sensazione che in Europa ci sia una forte riluttanza ad usare il termine ‘nemico’, probabilmente come risultato di una moda dilagante del ‘politicamente corretto’. Per giungere ad una soluzione nel conflitto israelo-palestinese è invece necessario tener conto dell’ostilità, del sospetto e dell’animosità nei confronti di Israele, chiamando ogni cosa con il giusto termine e smettendo di nascondersi.
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