“Il cinema italiano? Come se fosse una madre. Siamo nati con il neorealismo, Rossellini, Visconti, Fellini”. Così Luc e Jean-Pierre Dardenne a Firenze, ospiti al 63° Festival dei Popoli per una masterclass e per presentare il loro ultimo film, Tori e Lokita, in uscita il 24 novembre, distribuito da Lucky Red.
A proposito del film accompagnato dal brano di Angelo Branduardi, Alla fiera dell’Est, spiegano che è un brano che loro avevano sentito “da un bambino belga di terza generazione e che aveva imparato l’italiano grazie a quella canzone. E’ un brano come fosse una ninna nanna rassicurante”.
I fratelli Dardenne, poi, riguardo la pandemia hanno detto: “C’è stata una reale solidarietà durante la pandemia, specialmente in Italia dove tanti medici e sanitari sono morti perché non avevano abbastanza protezione. Fu un grande sacrificio. Una solidarietà che c’è stata e in qualche modo rimarrà anche se sono finite queste circostanze di emergenza”.
I fratelli Dardenne, inoltre, raccontando della loro carriera hanno aggiunto: “abbiamo iniziato a fare cinema non solo pensando a un cinema militante ma con la consapevolezza che la classe operaia stava scomparendo e quindi volevamo curare la memoria, farne testimonianza”.
Infatti – hanno spiegato “il nostro lavoro è iniziato con Armand Gatti con il movimento operaio in Francia: è stato il nostro padre spirituale. Dopo la seconda guerra abbiamo incontrato molti italiani che lavoravano qui, da operai alla piccola borghesia e ci siamo detti: non c’è niente sulla storia di questa gente, perchè non la raccontiamo noi?”. E ancora: “La prima cosa che abbiamo fatto è stato andare nei quartieri popolari (nel ‘75): se lo facessimo oggi la gente sarebbe diffidente. Noi allora suonavamo il campanello e ci presentavamo, per fare dei ritratti delle persone e poi proiettarle nelle associazioni, nelle sale della parrocchia, per poterli filmare e farci raccontare quelle che loro credevano fossero delle ingiustizie della loro vita, e molte riguardavano il lavoro”.
“Era la prima volta che le persone si potevano vedere subito nelle riprese, nella vita reale solo il video poteva fare questo: la memoria di quello che avevano fatto quelle persone poteva essere trasmessa ad altri, ai loro figli, a chi vedeva quei video, legati al passato. Da qui abbiamo iniziato a fare documentari: tutto quello che riguardava il nazismo in queste regioni, gli scioperi operai, un diario/giornale di un militante, tutte le storie personali, nella loro quotidianità. Erano le memorie della nostra regione, e volevamo trasmetterle prima di tutto a noi stessi, e poi alle prossime generazioni, e lo abbiamo fatto fino all’85. Questa è un’epoca individualista, per questo è triste: parlare delle persone è per trovare linguaggio universale”.
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