“Lunedì i 72 leoni voleranno via”. Dante Ferretti, lo scenografo dei più grandi maestri italiani e internazionali come Pier Paolo Pasolini, Federico Fellini, Martin Scorsese, Brian De Palma, Terry Gilliam, immagina la fine del suo allestimento veneziano composto dai 60 leoni delle edizioni passate posti sui piedistalli di plastica e da 12 leoni sparsi in giro per il Lido. I leoni alati tanto criticati e amati in questa 61. Mostra che scivola verso la sua conclusione dovevano tornare dentro il Palazzo del cinema. Racconta Ferretti: “Li avevo parcheggiati fuori dal Palazzo dato era stata costruita un’impalcatura sulla facciata anteriore. Dovevano rientrare dentro quando veniva tolta l’impalcatura ma forse non sarà così”. Ma Ferretti non è al Lido solo per loro. Oggi pomeriggio Cinecittà Holding e Electa insieme all’Accademia dell’Immagine presentano nello spazio Cinema Incontri del Westin Excelsior “Ferretti L’arte della scenografia”: 400 immagini per 350 pagine in lingua italiana e inglese, come racconta il curatore del volume Gabriele Lucci, che illustrano e spiegano la maestria di Ferretti. L’obiettivo della collana, nata con i tre volumi su Vittorio Storaro, Scrivere con la luce, è di decodificare le immagini cinematografiche attraverso il lavoro dei grandi protagonisti, in particolare italiani, del cinema internazionale.
I suoi leoni stanno già diventando cult.
Io sono un massimalista megalomane. Non mi è mai piaciuto fare film su fondali bianchi. E poi la Mostra ha chiamato uno scenografo non un altro tipo di professionista.
Ma i film di Pasolini avevano delle scenografie minimali.
Il cinema di Pasolini si ispirava alla pittura. Quando il pittore fa un quadro: suggerisce la presenza di un oggetto più che sottolinearla. Avveniva lo stesso nei suoi film. Non a caso Pasolini metteva sempre la macchina da presa al centro dello spazio in cui andava a girare mai di lato.
Come un pittore con il suo a cavalletto.
Sì.
Cosa le ha insegnato invece Fellini?
Tutto. Nonostante la differenza di età eravamo sulla stessa lunghezza d’onda. Venivamo entrambi dalla provincia, lui da Rimini io da Macerata. Il mio rapporto con Fellini è cominciato ancor prima di incontrarlo. Ricordo mio padre quando passeggiavamo per la cittadina. Passavano dei ragazzotti ed egli mi diceva, “Vedi quelli sono i vitelloni”. Federico mi ha insegnato la fantasia e la memoria anche quando non ce l’avevo. Aveva 25 anni più di me e io per paura di non essere chiamato a lavorare mi aumentavo gli anni. Un giorno mi fece: “Ma perché mi racconti bugie? Tu sei nato il giorno che io mi sono sposato”.
Come è cambiato il suo mestiere negli anni. Non teme che il Blue screen le possa un giorno togliere lavoro?
Posso sbagliarmi ma non credo proprio. Il digitale è molto importante ma funziona a completamento della scenografia, non può sostituirla.
Lei stesso ha completato le sue scenografie con il digitale.
Nel caso di Gangs of New York, quando si è trattato di effettuare delle riprese dall’alto. In quel caso il digitale è servito ad aumentare i quartieri.
Ha appena terminato di lavorare con Martin Scorsese per The aviator ma deve già preparare altre scenografie, non è vero?
Si tratta di The black Dahlia, diretto da Brian De Palma, tratto dal romanzo omonimo di James Ellroy. Ma la storia, di cui esistono numerose versioni letterarie, è basata su un fatto di cronaca degli anni ’40 a Los Angeles. Un delitto irrisolto che fece molto scalpore data la violenza con cui venne compiuto. Una donna era stata fatta a pezzi e ritrovata in un campo. Si inzia a girare a Gennaio 2005. Esterni a Los Angeles, interni negli studios.
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