Un debutto importante per il 35nne Daniele Vicari, primo italiano ad essere visto in Concorso con Velocità massima, “un termine tecnico con il quale si indica il limite massimo raggiungibile da un oggetto in movimento”. Scoperto da Domenico Procacci, che al Festival di Torino apprezzò il suo documentario Comunisti (1998), la loro intesa si è poi sviluppata con la realizzazione di Sesso, marmitte e videogames, un documentario sul mondo dei patiti delle corse automobilistiche. Ora si rafforza con questa nuova produzione, il cui titolo originario era Lungo la strada. Per Vicari, dopo il film Non mi basta mai (1999) diretto con Guido Chiesa, è l’occasione a Venezia per farsi conoscere dal grande pubblico.
Come è nata l’idea di “Velocità massima”?
Nasce da Sesso, marmitte e videogames, il mio documentario del 1999 prodotto dalla Fandango. In quell’occasione sono entrato in contatto con gli appassionati di motori e corse. Uno dei loro punti di incontro è l’obelisco dell’Eur a Roma. Hanno una competenza impressionante, codici e linguaggi propri. Molti di loro vengono da classi medio-basse ma non mancano ricchi professionisti con auto da quattrocento milioni. Non è affatto ristretto e ci sono perfino riviste che si occupano del tema. Quando mi sono avvicinato a loro hanno capito che non andavo alla ricerca dello scoop ma che cercavo qualcos’altro.
Perché sei così affascinato da questo ambiente?
Perché è una metafora della nostra società. Alcune dinamiche tipiche dell’Occidente, prima tra tutte la tendenza all’individualismo, qui sono estremizzate, vissute in modo esplicito, senza veli. Anche la forma di accumulazione, di culto verso gli oggetti, nel loro caso le automobili, riguarda tutti. È una “devianza” collettiva. Per questo evito ogni retorica perbenista anche quella di chi dice che chi corre a 300 km all’ora è un pazzo perché mette a rischio la propria vita e quella degli altri.
Il paragone con “Fast and Furious”, l’action movie di Rob Cohen, è inevitabile…
Quando abbiamo cominciato a scrivere la sceneggiatura (firmata da Vicari, Maura Nuccetelli e Laura Paolucci ndr) ci siamo posti il problema di lavorare all’interno di un genere codificato. Ma non avevamo i mezzi né la voglia di seguire la strada tracciata dal filone americano in cui, come in Fast and Furious, prevale l’azione. Abbiamo cercato una via d’uscita nella tradizione italiana. La messa in scena ipertecnologica del film di Cohen non ci interessa. Così raccontiamo una storia che fa parte della nostra quotidianità. Al centro del film ci sono i personaggi. Le tre corse automobilistiche che si vedono nel film sono raccontate dal loro punto di vista.
Nel film di Cohen ritorna il connubio donne-motori. Tu che ne pensi?
L’associazione tra corpo femminile, sessualità e automobili è un tema classico. Fa parte di Velocità massima perché il film racconta di un contesto e di una cultura maschile. Il problema è che le donne che ne fanno parte la assorbono. Il personaggio di Giovanna lo dimostra. Ma non ho ambizioni pedagogiche e non mi interessa fare prediche su come dovrebbero essere le donne.
Hai stretto un sodalizio con la Fandango che dura fin dai tempi di “Sesso, marmitte e videogames”…
Mi trovo benissimo a lavorare con Procacci. Attorno alla Fandango si è creato un gruppo di persone accomunate dallo stesso modo di intendere il cinema. Alla base ci sono dei presupposti “etici”. La casa di Procacci mette a disposizione del regista e della troupe tutti i mezzi possibili. Non gioca col budget perché quello che conta è il rispetto del progetto in cui ha scelto di investire. È questa la ragione del successo dei suoi film.
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