Un film “rabbioso e tenero” dedicato a tutte quelle persone fragili e invisibili di cui la nostra società è piena. Pietro è il nuovo lungometraggio di Daniele Gaglianone, in concorso al Festival di Locarno, che si apre mercoledì 4 agosto, e presto in sala il 20 agosto con Lucky Red. Terza volta alla kermesse svizzera per il regista che nel 1995 vi ottenne una menzione speciale con il cortometraggio L’orecchio ferito del piccolo comandante e nel 2008 partecipò alla sezione Ici&Ailleurs con il documentario sulla guerra civile in Bosnia Rata Nece Biti (Non ci sarà la guerra).
In Pietro tornano protagonisti quelle esistenze marginali, gli ultimi, che avevamo visto in Nemmeno il destino, opera con la quale il regista puntava l’attenzione sulla solitudine di due adolescenti. Questa volta in scena troviamo appunto Pietro, alle prese con un lavoro precario malpagato, i maltrattamenti del suo capo e un fratello tossicodipendente, la sua unica famiglia, ostaggio dello spacciatore Nikiniki. Quella di Pietro è una vita dura, fatta di umiliazioni, dove non c’è spazio per relazioni solidali, ma l’incontro sul luogo di lavoro di una giovane donna lascia aperta una via d’uscita. Per un attimo il riscatto sembra alla sua portata.
Prodotto da Gianluca Arcopinto e Babydoc Film, in collaborazione con La Fabbrichetta, la pellicola drammatica di Gaglianone è stata sostenuta dalla Film Commission Torino Piemonte.
La vicenda si svolge nella periferia torinese?
L’ambientazione non è esplicita, se non un paesaggio urbano che ha la forza di quel nonluogo che sono diventate le metropoli, le quali ormai si assomigliano tutte, a qualsiasi latitudine.
In questo scenario s’arrangia a vivere il protagonista: un personaggio estremo, ai margini.
Ma assolutamente comune, simbolo dei tanti che vivono un’esistenza dura e difficile. Individui fragili che hanno dentro di sé una potenzialità violenta e talvolta feroce. Pietro è uno di loro con il suo lavoro precario ed effimero di ‘volantinatore’. Mentre distribuisce depliant, attraversa spazi, incrocia tante persone, eppure è solo.
Come è nata la storia?
Innanzitutto dal mio stato d’animo arrabbiato, anzi di più incazzato. E poi da quelle notizie di cronaca nera, che durano il tempo di una mezza giornata e che raccontano, spesso con morbosità, episodi di violenza sempre più diffusa, fuori e dentro le mura domestiche. Episodi che testimoniano come ormai prevalgano risposte brutali e individuali a situazione complesse.
Per uno dei produttori il suo lavoro allude a quel “fascismo prossimo venturo”. E’ d’accordo?
Se per fascismo, al di là del suo significato storico e politico, intendiamo un ambito sociale in cui le relazioni tra persone sono sempre più violente, allora sono d’accordo. I nostri tempi sono segnati da un individualismo sfrenato, sempre più labile è il senso della comunità, mentre prevale ovunque aggressività.
Un film dunque pessimista?
Certo un’opera dura, ma non rassegnata come potrebbe apparire in un primo momento. Il protagonista ha una reazione feroce ai soprusi e lo spettatore si sente a lui vicino, ma nel contempo ha bisogno di prendere le distanze dal suo gesto estremo. Viene naturale domandarsi perché Pietro per riconoscere la sua umanità debba compiere un’azione tanto disumana.
Per interpretare i due fratelli ha scelto, paradosso, il duo comico torinese ‘Senso d’oppio’, visto nel programma tv “Zelig”?
Spesso gli attori comici hanno un ventaglio espressivo di sfumature tragiche molto interessante. Durante l’ideazione del film ho pensato subito a questo duo teatrale di cabaret surreale,e ho costruito i personaggi sulle loro fisionomie fisiche e psicologiche. Del resto conosco da diversi anni Pietro Casella e Francesco Lattarulo, già impiegati per ruoli secondari nel mio Nemmeno il destino, del quale era protagonista Fabrizio Nicastro, qui nella parte dello spacciatore.
Che cosa ha chiesto agli interpreti?
A parte un intenso ma non lungo lavoro di preparazione prima delle riprese, ho suggerito loro di respirare l’aria arrabbiata di alcuni irripetibili film americani degli anni ’70 come Lo spaventapasseri e Panico a Needle Park, entrambi firmati da Jerry Schatzberg. Ma non sono sicuro che l’abbiano fatto…
Quale colonna musicale ha scelto?
Una musica rarefatta, soprattutto ho utilizzato i suoni come si trattasse di una partitura. Ho fatto ricorso a una presa diretta lavorata in post produzione.
E la fotografia?
Colori vivi e contrastati, quasi iperreali, evitando il luogo comune di una fotografia ‘sporca’ per un film che potrebbe essere etichettato come realista.
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