I nostri anni di Daniele Gaglianone è uno dei due film in concorso a Torino insieme a Guarda il cielo di Piergiorgio Gay. “Sono molto curioso di vedere che cosa accadrà”, dichiara il trentaquattrenne regista: “In teoria Torino dovrebbe essere una piazza molto ricettiva per il mio film, ma un festival come questo, a cui partecipa anche molto pubblico e non solo gli addetti ai lavori, è severo per forza. E per fortuna”. I nostri anni, la storia di due anziani ex partigiani che ritrovano in un ospizio il responsabile di un eccidio e decidono di farsi giustizia da soli, è un film girato in “austerity” – con un cast di giovani attori di teatro e anziani non-attori disposti a buttarsi in quest’avventura – prodotto e distribuito dalla Pablo di Gianluca Arcopinto, che lo farà uscire nelle sale a gennaio. Realizzato senza finanziamenti statali. “Altrimenti avremmo dovuto aspettare due anni – commenta Gaglianone – ma la povertà di mezzi non mi ha fatto sentire limitato, ma libero. Avevo molto poco da perdere e quindi ho potuto rischiare di più. Anche se, con due miliardi di budget, non credo che avrei girato un film molto diverso”.
“Il partigiano Johnny” a Venezia. “I nostri anni” a Torino. Nel cinema italiano del 2000 è il momento della Resistenza?
No, non credo. C’è stato un momento, con i cinquant’anni dalla Liberazione, in cui si è ricominciato a parlare di Resistenza, ma credo che il fatto che escano due film sullo stesso tema sia abbastanza casuale. E anche se Johnny mi è piaciuto, cinematograficamente, con il mio film siamo molto lontani. Ho collaborato dieci anni con l’Archivio della Resistenza, ho conosciuto persone e storie, e avevo già affrontato questo argomento in alcuni cortometraggi di fiction. Ma più che sulla Resistenza e su quello che è successo ieri il mio è un film sull’oggi, anche se quello che è accaduto ieri per la vita di queste persone è fondamentale. Non so se sia fondamentale anche per l’attualità, visto come stanno andando le cose. I nostri anni è la storia di due persone che si ritrovano in un mondo in cui non si riconoscono e fanno i conti con un passato che non passa. Alla fine non c’è perdono, non c’è un gesto clemente. Parlare di perdono o di clemenza mi sembra fuori luogo. È un trovarsi di fronte all’impossibilità del riscatto.
Perché hai scelto dei personaggi anziani?
Mi affascina molto il rapporto che una persona ha con la propria memoria, sia a livello soggettivo che più ampio, sociale. Le persone anziane, più di tutti, devono fare i conti con la memoria e sono costrette a vivere confrontandosi constantemente con i propri ricordi, fino a arrivare a una dimensione in cui le cose si confondono: tra il passato e il presente non c’è più differenza. Nasce così un meccanismo ossessivo, che nelle persone anziane, che sono sul limitare della vita, è più frequente perché a loro non resta altro che la memoria, mentre i giovani hanno ancora qualcosa in cui sperare. In un certo senso I nostri anni è una storia vera, perché è tratta da più storie vere di persone che ho conosciuto. Ma non definirei il mio un cinema della memoria. Piuttosto un cinema della solitudine.
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