CANNES – Negli ultimi anni i cineasti sud coreani ci hanno dimostrato di saper rappresentare una delle più vivaci frontiere cinematografiche al mondo, grazie alla loro capacità di piegare il racconto di genere al volere autoriale, ammiccando al tempo stesso al mercato internazionale. Sul grande e sul piccolo schermo, indistintamente, si sono imposti a livello globale riuscendo a sfruttare a loro favore le contraddizioni e le tensioni sociali della Corea del Sud per una spinta propulsiva cruciale.
In questo senso è da intendere la presenza al Festival di Cannes, all’interno delle Midnight Screening fuori concorso, dell’opera prima di Lee Jung Jae Hunt, un film che, nello sforzo produttivo e nella retorica narrativa, non nasconde l’ambizione di imporsi come un vero e proprio blockbuster nazionale, risultato che probabilmente riuscirà ad ottenere.
Molto più controverso è capire il possibile impatto di questo film al di fuori dei confini coreani. Hunt, infatti, è un’opera che, a differenza di altre, parla molto ai propri connazionali, ambientando una classica vicenda di spionaggio governativo – interamente di finzione – durante la guerra fredda tra le due Coree negli anni ’80. Tantissimi i riferimenti “interni” che risultano un po’ ostici per il pubblico occidentale, che non può che fidarsi ciecamente del punto di vista storico-politico offerto dall’autore. D’altronde, come dichiara lo stesso regista: “mi piace pensare che questo film riguardi più persone che cercando di mettere in discussione le loro controverse ideologie, piuttosto che raccontare una storia sulla Corea del Nord e del Sud”.
La vicenda, epurata dai suoi complessi risvolti politici, riguarda fondamentalmente lo scontro tra due alte cariche dei servizi segreti (interpretati dallo stesso regista e da Jung Woo-sung), che si sfidano nel tentativo di individuare una talpa nord coreana che sta progettando un attentato al Presidente sud coreano. Ne derivano una serie di intrigate vicende che hanno come filo conduttore la sempre più scarsa fiducia tra i due protagonisti, che iniziano a dubitare non solo delle persone che li circondano, ma anche di loro stessi.
Un’impostazione dominata dal tentativo di stupire con frenetiche ed esplosive (letteralmente) scene d’azione e, soprattutto nel finale, con incessanti colpi di scena. Forte della sua fama in patria e, grazie al successo straordinario di Squid Game, anche all’estero, Lee Jung Jae si permette il lusso di debuttare come regista – ed esordire a Cannes – con un film di altissimo profilo spettacolare, forse anche troppo. Nonostante una messa in scena indubbiamente notevole, infatti, si nota la voglia di strafare. Hunt vuole essere un film di genere, ma anche storico e di denuncia sociale e politica. Inoltre, esagera a volte nella spettacolarità dell’azione, nella gratuità della violenza e, soprattutto, nell’accumularsi di stravolgimenti e plot twist. Un primo passo notevole nel mondo della regia, ma forse un pizzico più lungo della gamba.
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