CANNES – Nella prima scena del film, di grande impatto, vediamo il classico “boy meets girl” in una versione piuttosto inedita: lei ha rubato un telefonino, lui, guardia giurata dentro al centro commerciale, la insegue e la raggiunge, ma alla fine decide di cedere alle sue preghiere e la lascia andare. Siamo nell’estrema periferia romana, a Tor Sapienza, in uno di quei mondi dove la guerra tra poveri è più lampante, con Cuori puri, l’opera prima di Roberto De Paolis (leggi l’intervista di Cinecittà News) che debutta alla Quinzaine. Un film che mette insieme tanti tasselli di un’identità marginale (ed è un po’ una costante del cinema italiano in questo festival): il campo rom e i difficili rapporti tra gli “zingari” e i coatti, che spacciano e non disdegnano la piccola rapina al negozietto di frutta del bangla, ma anche quei ragazzi che cercano di rigare dritto, in un mondo dove è sempre più difficile trovare un lavoro e conservarlo. Così sono i due protagonisti: Stefano (Simone Liberati), un venticinquenne che si guadagna da vivere come guardiano con una famiglia disastrata alle spalle, e Agnese (Selene Caramazza), appena maggiorenne, allevata dalla mamma single (Barbora Bobulova) secondo rigidi valori cattolici, frequenta la parrocchia di Don Luca (Stefano Fresi) ed è in procinto di fare il voto di castità fino alle nozze, insieme all’amica più cara.
De Paolis racconta con un certo orgoglio il lungo lavoro di preparazione del film, che ha una base quasi documentaristica e che ha portato i due giovani interpreti a frequentare il quartiere di Tor Sapienza. Simone Liberati (Suburra, Il permesso 48 ore fuori) rivela: “Avevo un sacco di pregiudizi, temevo di essere respinto, addirittura picchiato, invece ho conosciuto un ragazzo della zona che è diventato un vero amico. Quelle persone ci hanno aperto le porte di casa loro, volevamo raccontarsi. In fondo io vengo da Ciampino, non tanto lontano. E durante la preparazione del film mi sono reso conto di quanto la geografia urbana condizioni il mio personaggio”. De Paolis spiega così la fascinazione di certo cinema italiano per la marginalità (qui a Cannes gli esempi si moltiplicano, seppure in forme e stili diversi, da A Ciambra di Jonas Carpignano a Fortunata di Sergio Castellitto): “Sono vite difficili e rischiose, personaggi messi all’angolo, in cui c’è molto da indagare e soprattutto c’è più azione e meno elucubrazioni mentali”. Per Selene Caramazza – il cui personaggio per l’ambivalenza con cui vive il rapporto tra la fede e l’istinto di libertà ci ha fatto pensare alla protagonista de La ragazza del mondo – è stato importante fare un percorso di fede: “Per quattro mesi ho frequentato una comunità di credenti, non volevo simulare la preghiera. Ho ripreso ad andare a messa, ho conosciuto Don Fabio Rosini, che ha ispirato il prete del film. Questi ragazzi mi hanno accolto benissimo”. E sulla ribellione di Agnese: “Sta crescendo, sta diventando donna ed è una ragazza come le altre. E’ normale che le vada stretta una scelta così forte”. Quanto a Stefano Fresi, bravissimo nel ruolo del prete pieno di carisma e capace di comunicare il Vangelo ai ragazzi anche con le barzellette, dice: “Sono cresciuto in periferia, a Centocelle, e in un ambiente cattolico. A 9 anni andavo in chiesa a suonare l’organo alla messa del mattino. Al mio personaggio riconosco la capacità di relazionarsi con i ragazzi. Non li plagia, li coinvolge veramente”.
Cuori puri, interpretato anche da Edoardo Pesce, arriva in sala da domani distribuito da Cinema, la società del padre di Roberto, Valerio De Paolis, storico produttore e distributore. “Ho cercato di tenere fuori mio padre da questo progetto – racconta il regista – l’ho prodotto da solo anche se poi sarà lui a distribuirlo. Questo era il mio primo lungometraggio e avevo bisogno di misurarmi con le mie forze e le mie risorse”, rivela. E sul proliferare di personaggi adolescenti in questo festival di Cannes, lancia una riflessione: “L’adolescenza è il momento più drammatico che viviamo, si diventa adulti, ci si lascia l’infanzia alle spalle, il corpo si trasforma. Forse, arrivato a 35 anni, anche io avevo bisogno di fare questo percorso”.
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