Cristina Comencini: “L’emozione non piace ai festival”


VENEZIA. Non è stato accolto bene Quando la notte di Cristina Comencini, dramma psicologico di maternità e d’amore, tratto dall’omonimo romanzo della regista. Pochi applausi al termine, parecchie risate durante la proiezione (per stampa e industry) del secondo titolo italiano in Concorso. “Non sempre nei festival l’emozione è accettata. Il film ha due o tre momenti emotivi forti e complessi – risponde la regista – Civiltà vorrebbe che uno vedesse tutto il film e poi scrivesse quello che vuole, ma la reazione è stata inaudita. La prendo come un partito preso e non so perché”.

 

Più duro il commento di Riccardo Tozzi che con Cattleya insieme a Rai Cinema, in collaborazione con Film Investimenti Piemonte, produce Quando la notte: “Che al termine di una proiezione il pubblico disapprovi ci sta tutto è nella dialettica stamattina, che a mezz’ora del film cominci un lavoro di destabilizzazione della proiezione, è evidente che questo cambia la percezione del film da parte di tutti gli spettatori. Certo – rincara Tozzi – è un problema che Müller e Baratta si devono porre. Non credo ai complotti, può darsi che sia un gruppo spontaneo. Ma la cosa ha comunque inficiato la proiezione per la stampa”. E Müller risponde a distanza, “verifichiamo se è vero che un gruppo è andato a fischiare”.

Quando la notte, che vedremo in sala dal 28 ottobre, è la storia di due solitudini che s’incontrano in un scenario insieme potente e ostile quali sono il Monte Rosa e Macugnaga il paese alpino, le due location scelte con un bel po’ di problemi risolti in fase di riprese. Manfred/Filippo Timi è una guida, un montanaro chiuso e aspro, indurito da un doppio abbandono che lo rende ostile verso le donne. Marina/Claudia Pandolfi è una giovane mamma in vacanza, nella casa di Manfred, da sola con il bambino, assorbita giorno e notte dall’accudimento che la sta esaurendo. Un incidente casalingo al figlio avvicinerà due persone in apparenza distanti, che scoprono una radice comune forse, un legame che durerà nel tempo. Nel cast del film, che è stato sceneggiato dalla regista insieme a Doriana Leondeff, Michela Cescon interpreta la faccia solare della maternità, apparentemente in antitesi a Marina.

 

Perché ha voluto mettere al centro del suo film la maternità?
Le donne sanno che cosa è esattamente la maternità, ma non l’hanno mai raccontata. Conoscono l’ambivalenza del rapporto con il bambino, cioè la forza del legame e allo stesso tempo questo rapporto intimo che a volte le schiaccia. Spesso in maniera rassicurante si parla per le donne, ma anche per gli uomini, di istinto materno e dietro questo cappello si mettono cose che non esistono. La maternità inizia di colpo, e solo allora s’impara. E’ limitazione della propria libertà e allo stesso tempo è acquisizione enorme del rapporto con un altro.

 

Un tema dunque poco frequentato dal cinema?
Sì, anche in letteratura. Comunque ci sono dei bellissimi libri, in Francia è uscito alcuni anni fa “Storia dell’amore materno” di Elisabeth Badinter. Ma il mio film non è solo sulla maternità, perché il bambino è anche dell’uomo. Si parla sempre di madre e figlio e non della situazione che fa nascere il bambino, e cioè il legame tra l’uomo e la donna.

 

Quali allora gli altri temi in evidenza?
Ci sono il desiderio e l’amore, e dietro i contrasti, le complicazioni e le difficoltà. Volevo mettere l’uomo al centro del rapporto tra madre e bambino. Mi interessa molto raccontare l’ambivalenza dei sentimenti e la fatica che si fa per emergere dai conflitti, dalle situazioni di solitudini come quelle di Marina e Manfred.

Guardando il film, torna alla mente la vicenda di Cogne con protagonista Annamaria Franzoni? C’ha mai pensato?
Forse nell’inconscio, ma non ne avevo coscienza. L’idea di partenza è in sé semplice: quando un bambino piccolo non sta bene il pediatra di solito dice di portarlo un mese in montagna perché respiri l’aria buona. Tante sono le madri che hanno vissuto questa situazione in apparenza normale. Ecco Marina vive in solitudine quella esperienza.

E allora le interminabili giornate di pioggia con lei sola quasi prigioniera in casa con il figlio…

Sì Marina in montagna vive un’esperienza terribile e straordinaria allo stesso tempo. Nel momento in cui ce l’hai fatta tu diventi un’eroina, perché sei potuta andare in bagno senza che il bambino s’ammazzi. Ecco per questo film sono partita da un’esperienza che sembra normale.

 

E l’uomo in generale come vive quel momento?
Nel quotidiano del loro rapporto non credo che l’uomo capisca che cosa affronta la donna nella maternità, ne capisce molto poco. C’è molto fraintendimento quando si dice che l’uomo deve aiutare concretamente la donna, non è solo questo. E’ che deve farsi avanti come padre che divide la madre dal bambino. Perché in questa osmosi c’è tutto e va bene, ma c’è anche un grande pericolo.

 

Nel passaggio dalla pagina allo schermo che cosa ha sacrificato del libro?
Nel film i due protagonisti parlano pochissimo, c’è un grande silenzio e tanta sintesi nell’immagine. Già c’erano poche battute nella sceneggiatura di partenza, poi girando ne ho tolte altre. Manfred e Marina si parlano in due occasioni e nel finale si dicono tre cose. Il film è silenzioso, stringato. Il libro è fatto di due monologhi interiori e non contiene le battute del film. Abbiamo oggettivato tutto.

 

E quelle sequenza delle due funivie che s’incrociano vendendo da posti opposti?

Rappresenta il rapporto con l’altro, con il diverso da sé. Credo che proprio dalla differenza tra gli uomini e le donne nascano il contrasto forte, la paura, l’ambivalenza, ma anche il desiderio e una possibile, miracolosa comprensione. 

 

autore
07 Settembre 2011

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