CRISTINA COMENCINI


La ricerca d’equilibrio di Claudio (Luigi Lo Cascio), la difficoltà di abbandonarsi all’amore di Sara (Margherita Buy), la paura della fine del matrimonio e il desiderio per un altro uomo di Rita (Sandra Ceccarelli), la consapevolezza di non aver mai sperimentato il piacere sessuale dell’anziana Irene (Virna Lisi).
Conflitti, desideri, paure compongono le geografie sentimentali dei personaggi di Il giorno più bello della mia vita, film scritto e diretto da Cristina Comencini, nelle sale dal 12 aprile.
Prodotto da Cattleya, Rai Cinema, The Producers Productions, è l’ntenso ritratto di una famiglia in cui ognuno si misura con i nodi irrisolti della propria vita, oltre la fittizia normalità borghese.
Nel cast anche Marco Baliani, Marco Quaglia, Jean Hugues Anglade.

Nel panorama maschile del cinema italiano lei afferma un sguardo femminile…
Sì, ma non sempre la differenza tra uomini e donne è netta. Nel mio film i personaggi femminili sono molto profondi, ma amo molto anche quelli maschili. Le tre protagoniste hanno attraversato la vita con forza, ma sperimentano delle fratture che affrontano con onestà e sincerità. Hanno il coraggio di mettersi a nudo. Comunque trovo che sia un buon momento per il cinema d’autore italiano, riesce a raccontare la gente e a creare forti meccanismi d’identificazione.

Ci parli dei personaggi maschili.
Carlo, il marito della coppia in crisi, è una figura struggente. Si scontra con qualcosa d’ineluttabile e vive assediato dai ricordi da cui è incapace di separarsi. Per la moglie la rottura è più facile perché è mossa da desideri nuovi. Volevo raccontare una separazione senza vittima né carnefice, in cui anche chi lascia prova dolore.
Claudio, il personaggio di Luigi Lo Cascio, è un gay che ha bisogno dell’affetto familiare e di essere accettato. Alla fine raggiunge la stabilità anche se non definitiva. Attraverso di lui racconto l’omosessualità non come marginalità disperata ma come relazione d’amore che sta sullo stesso piano dell’eterosessualità. Non è stato facile.

Al centro di tutto c’è la difficoltà di mettere insieme piacere e sentimento. Perché?
Perché faccio parte della prima generazione incapace di separare corpo e intimità. Prima se ne faceva a meno come dimostra la storia della madre/Virna Lisi, c’era più ipocrisia. L’idea della centralità del corpo viene dagli anni ’70, un periodo di grande mutamento dei costumi tra cui la dissoluzione delle forme classiche della famiglia, un tempo ricco di innovazioni ma anche di errori.

Ha scelto un cast di primi attori. È stato difficile amalgamarli?
Dirigerli non è stato l’aspetto più faticoso della lavorazione. La recitazione è la chiave del mio cinema. L’estetismo della macchina da presa fine a se stesso non mi interessa. Quando ho scritto i personaggi di Virna Lisi e Margherita Buy pensavo già a loro. Mentre Luigi Lo Cascio e Sandra Ceccarelli hanno fatto un provino. Le co-sceneggiatrici Giulia Calenda e Lucilla Schiaffino sono state essenziali soprattutto nella costruzione dei personaggi più giovani: tutti loro vivono problemi da adulti, sono pieni di paura e meraviglia per la scoperte del corpo e della sessualità. Ma la vera incognita è la bambina (figlia di Rita e Carlo ndr) che non conosce il sesso. In lei c’è un’idea religiosa dell’amore come unità tra anima e corpo, desiderio e fedeltà. Una visione priva di contraddizioni che per gli adulti è un’utopia.

Alla fine vediamo la bimba che spia la famiglia con una videocamera…
Le sue riprese si contrappongono ai vecchi filmini della nonna. Sono molto più realistiche. I suoi occhi infantili guardano in faccia gli eventi: le immagini finali non offrono soluzioni, ma forse la possibilità di non fare troppi errori.

autore
08 Aprile 2002

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