Crialese: “mia madre ha vissuto con me l’immensità”

L’incontro con l’autore de L’immensità, in Concorso. Penélope Cruz interpreta la mamma del regista e non è un film sul coming out ma su "la transizione di un'anima"


VENEZIA – “La donna per me è la vita. La donna è la parte migliore dell’uomo che sono. La donna non è rinnegata, la donna è viva ed è grande dentro di me, ed è anche l’oggetto dei miei desideri. È colei che io ascolto più volentieri. Il corpo della donna è quasi un campo di battaglia perché dà la vita, allatta, e spesso rinuncia alla propria: ha dovuto lottare per emanciparsi. La donna sa fare il sacrificio della rinuncia per la vita. I personaggi femminili sono per me quelli più interessanti o quelli che mi interessano davvero: è molto difficile per me descrivere un uomo, mi annoia. E io, allora? Io… sono e non sono e voglio rimanere così, essere e non essere, spero vi stia bene così. Sono un uomo come gli altri? No. Sono una donna come le altre? No. Sono io, un po’ più complesso”, racconta Emanuele Crialese, autore de L’immensità, film autobiografico, in Concorso alla Mostra, con protagonista, nel ruolo di sua madre quando lui era bambino (Adriana/Andrea, nel film), Penelope Cruz.

“Nelle famiglie bisogna pensare a come gestire il dolore, perché sono le famiglie a far ri-nascere queste persone e bisogna sostenerle: i tempi sono cambiati, ma mia madre era sola con me e non sapeva dove sbattere la testa. Nel mio periodo, per cambiare la A con la E (del suo nome, ndr) ho dovuto lasciare un pezzo del mio corpo in pegno alla società, che se no non me lo avrebbe permesso, quindi la mentalità è la stessa ma adesso abbiamo negoziato, ma non siamo ancora arrivati…”, continua. 

La genesi del film comincia tre anni fa “parlando con il mio grande amico Alejandro González Iñárritu: ci siamo confessati che l’autobiografia fosse uno smascheramento, ci impauriva. Una maschera aiuta a trasformare le cose in simbolo. Ma, se uno è un autore lavora sempre sull’autobiografico. Io invento storie per raccontare situazioni che mi ossessionano, o mi appassionano. Forse io mi sono avvicinato al cinema sperando di riuscire a raccontare questa storia: se avessi cercato di farlo alla mia prima esperienza cinematografica avrei fatto una cosa didascalica, l’avrei tematizzata e vi avrei mostrato la storia di un poveraccio che vive la crisi di genere, che si dispera: ho dovuto aspettare per prendere consapevolezza di me, e del linguaggio cinematografico, perché certe cose bisogna raccontarle quando si è capaci di esprimersi: ad un certo punto mi sono detto che dovevo affrontare questo labirinto. È uno dei tanti momenti della consapevolezza. Questa è stata un po’ una rinascita e io ho deciso che fossi pronto a rinascere con questa storia”. 

Una storia personale sì, ma di famiglia e in cui la maternità è imprescindibile, nel film appunto messa in scena da una gigantesca Penélope Cruz: “Penélope è l’archetipo della donna, di ieri, di oggi, di domani. È la madre, l’amante. È LA donna. È Penélope in senso mitologico e io mi sento Ulisse quando la filmo, io mi sento Nessuno nel senso più nobile del termine; non riuscirei a autodefinirmi: io cambio ogni giorno. Lei è stata generosa: io affronto lunghissime giornate di prova, stando insieme, anche sopportando la noia e cucinando, e Penélope è stata bravissima con i tre bambini (che interpretano lui e i suoi due fratelli, quando piccoli): la vedevano come una dea ma è entrata subito in confidenza con loro; ognuno si inventava una propria storia, senza sentirsi obbligato a parlare di sé, ma attraverso l’invenzione s’è creata una famiglia. I bambini avevano capito tutto senza che io gli avessi spiegato niente: siamo capaci di comunicare a livelli non verbali. I bambini hanno bisogno di nuove parole per identificarsi, per il mondo che sta cambiando. I bambini sono maestri, dicono: ‘no, mi avete scocciato col maschio/femmina, perché siete voi adulti ad aver bisogno di rassicurazione. Io sono davanti a te, non ti basta?’. Possiamo fare un esercizio per trascendere le classificazioni darwiniane? Prima che uomo/donna ci sono gli esseri umani e i bambini ci ricordano questo e vogliono scardinare qualcosa da cui uscire: ci stanno indicando un percorso evolutivo fuori dagli schermi e noi dobbiamo seguirli”. 

Poi, venendo alla sua di mamma, quella della vita vera, Crialese dice che il film e il rapporto che mette in scena è “l’omaggio alla mia donna, colei che mi ha creato. Non riesco a trovare le parole, c’è tutto il non detto che vale molto di più… – un raccontarsi che lo commuove, sentire a cui non si sottrae, seppur mostrato con discrezione – La grande difficoltà spesso è la loro, delle madri, nell’affrontare con noi la cosa, tenendo conto, soprattutto per me, che ero figlio del mio tempo… . Ci nascondevamo, lei insieme a me. Mia madre mi è stata vicino e ha vissuto con me l’immensità: un amore come quello materno è un amore che io benedico, la fortuna dell’amore materno, la grazia, non è paragonabile a nient’altro”. 

Una mamma con cui ha vissuto la vita e molta della storia – sul grande schermo – è ambientata nel loro appartamento romano: “Una casa come se fosse una navicella spaziale, sospesa, dove tutto si sta costruendo. La casa è il corpo e come si vivono le relazioni quando il corpo è malato, quando l’amore è finito? Lì ci sono due persone che si sono amate e i bambini si adattano attraverso le trasformazioni del loro corpo, per attrarre l’attenzione dei genitori. Roma, poi, è un paesaggio un po’ metafisico e irraggiungibile: io amo gli spazi aperti, amo sentirli mentre giro, con elementi che non controllo. Lì ero in uno spazio in cui lo controllavo, ne avevo paura. Invece, in tutta quell’intimità, mi sono sentito nel mio corpo: gli interni della casa sono una riproduzione esatta della mia. Il corridoio, quello che divideva la nostra stanza di bambini da quella dei genitori, lo ricordo come un elemento importante, era come un cannocchiale: come se avvicinandosi o allontanandosi potessi cambiare le prospettive e vedere le cose sempre da fuori, ma cambiando ottica: credo sia stata la mia prima esperienza con le ottiche”. 

Una mamma, nell’incarnazione fatta da Cruz, che chiama in scena, con una scelta estetica che quasi sempre prende in prestito e “gioca” magistralmente con il bianco e nero, Raffaella Carrà: “Per me una delle figure più importanti di donna, capace di essere se stessa senza passare mai moda, fedele a se stessa pur cambiando. Una donna con una grandissima empatia e curiosità. Per me un’icona. È successa una cosa forte durante le riprese, e preciso anche che Penélope è una sua grande fan; abbiamo cominciato i primi due giorni di set con la sequenza di Rumore: la mattina del secondo giorno, vado a salutarla e ci siamo detti, ‘se tu sei una fan, lei ti incontra subito!’. Dopodiché riprendiamo a cantare: arriva Mario Gianani – il produttore – con una faccia scura, Raffaella era morta poche ore prima. Noi abbiamo fatto quella scena ‘con lei…’, questa cosa ha fatto partire il film con una strana sincronia”. 

Poi, Crialese, sollecitato sull’uso (o abuso) giornalistico di parlare de L’immensità connesso al concetto di coming out, dice: “No! Non è un film sul coming out. Mi inibirebbe un titolo giornalistico così. È un film fortemente autobiografico ma io sono sempre stato out e non ritenevo di dover fare un comunicato, non sono una rock star. Ho fatto un film, ho raccontato una storia molto vicina con una chiave poetica: ho cercato che non fosse autoreferenziale. Era la transizione di un’anima. Sarebbe riduttivo parlare di coming out perché la gente andrebbe a vedere un film sulla transizione: questa sarebbe disinformazione (giornalistica)”. 

L’immensità, per Emanuele Crialese oggi, è “credere ancora con coraggio all’evoluzione. Stiamo entrando una fase storica di paura, che induce l’altro a scappare o combattere. Si scappa dall’evoluzione, da una riflessione sulla cultura. Questo ci aspetterà”.   

L’immensità esce al cinema il 15 settembre 2022. 

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