COURMAYEUR – L’unico film italiano in concorso al Noir, come si desume già dal titolo – At the End of the Day – è in realtà molto internazionale. Cosimo Alemà , esordiente nel lungometraggio ma con un bagaglio di circa 300 videoclip realizzati in 12 anni, ha infatti convocato per il suo debutto sul grande schermo degli attori inglesi, per una storia ispirata a un fatto realmente accaduto nel 1992 nel centro Europa. E l’aspirazione a varcare i confini nazionali ha già dato i suoi succosi frutti, visto che il film è affidato a un venditore canadese ed è stato già venduto ad Australia, Thailandia, Giappone, Russia, Ucraina e ci sono trattative concrete per Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania. At the End of the Day, che all’anteprima assoluta di Courmayeur ha scioccato più di qualche spettatore per le sue scene molto crude, racconta di un gruppo di ragazzi (tra questi Stephanie Chapman Baker, Michael Lutz, Neil Linpow, Sam Cohan, Michael Schermi) che vanno a giocare alla guerra in mezzo ai boschi, con tanto di tute mimetiche e fucili giocattolo che sparano pallini di plastica. Ma come nel più classico dei thriller, incontrano un gruppo paramilitare di villains che intraprendono un tiro al bersaglio con loro come obiettivi, trasformando il gioco in un incubo terrificante.
Il film uscirà nelle sale italiane con Bolero Film in primavera o all’inizio della prossima stagione (fine agosto 2011).
Il film è ispirato a una vicenda realmente accaduta? Come andò?
Non possiamo ancora svelare i dettagli, che fanno parte della comunicazione che lanceremo all’uscita del film. Posso dire che sulla base gli elementi trovati dagli inquirenti dopo il fatto abbiamo messo in scena una delle ipotesi possibili su come avvenne il tutto.
Dove e in quanto tempo è stato girato il film?
Lo abbiamo girato nei dintorni di Roma, nella zona di Bracciano, scegliendo degli scenari particolarmente selvaggi che hanno reso le riprese abbastanza faticose. La sceneggiatura è stata scritta e riscritta lungamente, siamo passati per numerose versioni, e la produzione è super indipendente, con la partecipazione di tutti quelli che ci hanno lavorato. Tutti quelli che erano sul set, 65 persone, più coloro che si sono occupati della post-produzione, sono entrati in compartecipazione.
Questi giochi di guerra hanno numerosi adepti in giro per il mondo. Avete attinto da quella realtà?
Sì, il fenomeno è molto diffuso. In Europa si chiama SoftAir, in America PaintBall, solo in Italia ci sono 400mila persone che praticano questa simulazione della guerra e nei Balcani, dove c’erano diverse carceri militari segreti, ci sono state anche conseguenze nefaste, il che ha molto a che fare con la vicenda che abbiamo raccontato. Abbiamo scelto di ambientare il film in un non luogo, un posto non riconoscibile, proprio per non legarlo a un contesto specifico. Ma nella nostra mente volevamo evocare Guantanamo.
L’elemento interessante è che questo thriller ambientato nei boschi si svolge tutto alla luce del sole, e non al buio.
Sicuramente in questo c’è l’influenza di un film come Un tranquillo weekend di paura e del primo Non aprite quella porta, entrambi ambientati alla luce del giorno. Cercavamo elementi diversi dal solito film di paura tutto al buio, e la tensione si sente molto anche così.
Lo possiamo interpretare come un film pacifista?
Sicuramente il sottotesto è quello, ed è identificato nel personaggio di Lara, che partecipa al gioco solo per passare qualche ora con la sorella, pur disapprovandolo. E’ l’unica ad avere un travaglio, a trovarla una cosa assurda, ma poi si lascia travolgere e agisce in modo discutibile.
La lettura principale però riguarda lo scontro tra l’uomo e la natura, anche i cattivi del film rappresentano la parte malvagia della natura. Ho voluto puntare molto sulle emozioni, questo film è anche romantico, anche se in modo negativo.
Ha già in mente un’idea per l’opera seconda?
Sì, un drama-thriller ambientato a Londra e quindi di nuovo parlato in inglese, ma è ancora presto per dire di più.
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